lunedì 7 agosto 2017

AILANTO n. 47 - Su Maria Borio




Non c’era bisogno che Maria Borio, nel licenziare con L’altro limite la sua prima prova organica, scrivesse nella nota finale che queste scritture fanno parte di un più ampio progetto: l’idea della costruzione si avverte fin dalle prime pagine, nel disegno del libro si intuiscono le tracce di una sinopia, di un vasto affresco mobile, però, che somiglia più a un work in progress. Del resto, ogni progetto che non risponda a tale movimento, in letteratura è destinato a sconfessarsi. Così quella che potrebbe sembrare una plaquette, un’anticipazione di qualcosa che deve ancora compiersi, si mostra in realtà con la tenuta di un libro, per quanto aperto, sospeso su un’incessante tensione proiettiva. C’è, quasi sempre, uno «schermo», o un susseguirsi di scene come dietro una quinta teatrale. L’autrice ci avverte che quello schermo è il «grande vetro» dietro cui sintetizza la reificazione del «mondo digitale», e questa è la vera novità: Maria Borio congeda il mondo della poesia analogica, per restare nella metafora tecnologica, che appare come relegato dietro il velo di quello schermo, e da lì proietta, o si lascia proiettare, le nuove immagini. Insomma, la scrittura si è fatta digitale non perché è mutato il suo supporto, ma perché quella è la sua nuova, ancora indefinibile sostanza.
(Non so se “reificazione” sia il termine esatto. Presuppone ancora una visione dalla parte di una realtà analogica, una capacità critica che invece il poeta affida ora alla melmosità delle sue parole, o di cui, probabilmente, non vuole essere più consapevole. Questa mi sembra la prima opera davvero digitale, in poesia, affacciata su un presente impietoso).
Non sorprende, allora, anche una certa metatestualità, un riflettere interno più sui modi che sulle ragioni della poesia. Ad esempio la questione della forma, che passa dall’ambito della realtà a quello della pagina, come problema che non si risolve in un ritorno alla Gestalt, perché digitale vuol dire anche virtuale, e ogni processo poietico finisce per coincidere con se stesso, in una crescente autoreferenzialità. Si mostra per ciò che è, un continuo decostruire e ricostruire il mondo, a patto di riconoscere, appunto, che quella realtà non è fatta solo di esperienza; o meglio, il concetto stesso di esperienza si è inevitabilmente corroso e ampliato, e ciò che viene dallo «schermo» è altrettanto opprimente e concreto di quanto è ancora possibile sperimentare attraverso gli altri sensi, che non siano la vista e l’udito. Spesso in questi versi, che campiscono come cellule isolate in un potente e inarrestabile fluire analogico, e che non riesco più a chiamare poesie nel significato tradizionale, perché la costruzione nega la forma, come a circuirla, a blandirla per poi disfarsene, non senza una certa crudeltà, è proprio la scrittura, nel senso più ampio e moderno, a dominare. Non potrebbe essere altrimenti, perché in questo primo libro, o tappa, necessariamente doveva agire la foga della ricerca e della definizione. E con il problema della forma doveva altrettanto porsi quello del soggetto, forse qui inteso più come prospettiva, come luogo da cui osservare e raccontare, piuttosto che come entità lirica. E dunque, come il primo uomo che si affacci su questa landa ancora indecifrabile, il poeta va ri-nominando le «cose». Maria sa bene che in poesia questo termine non significa nulla, che spesso è un espediente, avrebbe detto Verlaine, di bassa cucina. Ma proprio esasperandolo ne fa il veicolo di una semantica nuova, di una lingua che si sta plasmando, ed è ancora di là da venire.

Maria Borio, L’altro limite, LietoColle 2017, e. 13.

Sembra quasi che tu non abbia vissuto
tutti gli anni sconnessi
dopo la rivoluzione, o l’ipocrisia
ingenua di invecchiare
- forse questa gabbia,
la sicurezza, o un pezzo
di vita come carne comprata.
Se sapessi quale filo invisibile,
quale corda tesa e bugiarda…
anch’io sotto l’alluvione
sotto al peso incalcolabile?
anch’io vorrei smettere di dirmi
io.


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