lunedì 26 dicembre 2016

Il libro degli allievi. Per Biancamaria Frabotta








Il 31 maggio di quest’anno, Biancamaria Frabotta ha tenuto la sua ultima lezione nella Facoltà di Lettere dell’università «La Sapienza», dove ha insegnato per un quarantennio. Alla presenza di colleghi, allievi ed ex allievi, con la sua voce calma, suadente, che tradiva però l’emozione, ha scelto un argomento difficile, forse uno tra i più difficili che si possano trattare oggi: quello di un’eredità «possibile», lasciataci da alcuni autori del secondo Novecento. Calvino, Pasolini, Primo Levi, Morante, Caproni: scrittori dell’estremo, in grado di sondare le alterazioni del presente con lo sguardo – ora strabico, ora obliquo – di chi non rinuncia a misurarsi con il tempo e col proprio esser-ci nella Storia. Ora possiamo leggere quelle dense pagine in un volume intitolato Il libro degli allievi, curato da Alessandro Giammei e pubblicato dall’editore Bulzoni.
Si è soliti celebrare il congedo dall’insegnamento di un maestro autorevole con una miscellanea di saggi e di testimonianze, portati da colleghi che magari siano stati anche – ma non necessariamente - «allievi». Questo volume, invece, raccoglie intenzionalmente i contributi di chi ha passato parte del suo percorso di studente nelle aule dove Biancamaria Frabotta elargiva il suo magistero. Un magistero che Giammei, nella sua introduzione, non esita a definire «diverso». Gli allievi, dunque: e dunque l’«eredità». Gli scritti qui riuniti, davvero numerosi e partecipi, sono il perfetto, preciso contraltare di quell’ultima lezione; sono la traccia viva e umanissima di un patrimonio, etico e letterario, che non è rimasto confinato in quelle aule né si è stinto in un apprendistato. Poeti, scrittori, romanzieri, saggisti, giornalisti, operatori culturali di vario genere si affacciano tra queste righe: le loro biografie sono variegate, ma hanno tutte l’innegabile carattere di costituire una comunità nel tempo. Le loro geografie sono altrettanto instabili, per nascita o per destino; abbracciano uno spazio davvero vasto, se alcuni di loro hanno potuto continuare la loro carriera di studiosi oltre-Manica o addirittura oltre oceano. Tutti conservano con estrema precisione il sentimento del comune punto di partenza: quei banchi, dove Frabotta ha insegnato Letteratura italiana moderna e contemporanea dagli anni Ottanta a oggi.
Molti di loro sono ormai nomi acclarati nelle cronache culturali di questo difficile inizio di millennio. Qualcuno se n’è andato precocemente, come Pietro Pedace, qui rievocato attraverso la voce di Tommaso Giartosio e Edoardo Albinati. Altri, più giovani, sembrano delle sicure promesse; altri ancora spendono in disparte, ma con un bagaglio severo, in qualche trincea scolastica, la moneta della loro eredità. Come variegate sono le personalità dei testimoni, così anche le immagini di Frabotta che ci vengono restituite sono altrettanto cangianti, autoritratti per interposta persona, caleidoscopio di presenze che spesso, però, ricostruiscono un’unica prospettiva di magistero: quella della poesia che chiama, a sua volta, la poesia. Ma questo è il gioco a cui la vita stessa ci invita: perché, in fondo, non esiste mai una sola eredità possibile, ma esiste – e resiste - il modo in cui recepiamo e rielaboriamo quanto ci viene affidato. E solo allora, confrontandoci, potremo davvero renderci conto di quanto il lascito sia stato ricco e generoso. È quel che attestano queste pagine nel loro insieme.

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