martedì 27 dicembre 2016

AILANTO n. 39 - Su Marco Simonelli


Marco Simonelli ha cominciato a imporsi nel panorama della giovane poesia italiana a partire dalla metà degli anni Duemila (o gli anni «zero», come qualcuno li ha definiti), attraverso una declamazione aggressiva e una pronuncia ironica, che sembravano riportare in primo piano una presenza forte della figura del poeta, pur non rivendicando per essa alcun ruolo o alcuno statuto. Insomma, come una sorta di allegro bricoleur del verso, Simonelli si aggirava tra festival e letture e rassegne con la sua voce esatta e scanzonata, raccogliendo divertiti consensi spesso sfiorando il non-sense, ma sempre provocando l’ascoltatore fino a trascinarlo nel proprio delirio fonico. Un poeta performer, a tutto tondo, finalmente irrompeva con la sua carica eversiva e la giusta dose di provocazione (quella oltre la quale ogni provocazione rischia invece di appiattirsi e di consumarsi rapidamente); un giovane poeta in crescita, ma che ostinatamente sembrava volersi aggrappare alla parte più labile della propria gioventù, come a rivendicarla e a difenderla in un’estrema illusione di libertà.
Lo abbiamo amato fin da subito per questo: perché fra tanti sedicenti poeti giovani, che giocavano invece a fare i poeti vecchi, emulando distrattamente maestri che non avrebbero voluto esserlo, lui giovane lo era davvero, con la sua rabbia sorniona, con l’intelligenza del suo sguardo, e quel tanto di sfida inconsapevole con cui rompere schemi e cliché. Ecco un poeta che prende le vesti della tradizione e, piuttosto che strapparsele di dosso, se le ricuce a suo modo, con quel tanto di amore che esclude il rispetto conformistico, il riconoscimento di autorità consolidate. Ecco, insomma, un poeta pronto a litigare con ogni presunta canonicità e a riutilizzare i materiali del passato (quello prossimo e quello remoto) con una disinvoltura cha appare qualcosa di naturale, prima ancora che una conquista raggiunta. Quella disinvoltura che traspare anche nel suo ultimo lavoro, Il pianto dell’aragosta, pubblicato dalle Edizioni d’If.
L’impianto di questo libro mima infatti strutture e forme tradizionali, per impossessarsene e rivisitarle in una cornice nuova. Fin qui nulla di insolito, se guardiamo al percorso compiuto in quest’ultimo decennio: eppure in questi versi l’ironia cede il passo alla malinconia, che ne è spesso il rovescio più consueto, e «l’ombra» di «guai» non meglio indagati, ma che coinvolgono l’intero universo relazionale dell’io che si narra, spesso nel ricorso a un tu autoreferenziale, copre per intero le tre sezioni, o «parti», di cui si compone il volume. Ogni tanto permane, in qualche improvviso zoppicare del ritmo, o nel suo ripetersi cantilenante, un residuo, credo voluto, della libertà giovanile, della libertà dell’imperizia, intendo; è come l’affacciarsi di uno spiritello che vuol resistere, a tutti i costi, al dolore del tempo e dell’esperienza. Perché di questo, si tratta: dietro queste istantanee, queste cronache minime e minimaliste che appartengono a un mondo privato, si agita tutta l’inquietudine di una diffrazione tragica, ricondotta alla sua origine, al suo nucleo di reazione, al suo balenìo iniziale. Il confronto con il mondo animale, che compone un rapido ma significativo «bestiario», parla di solitudine ed estraneità. Non diversamente accade nella seconda e terza parte, dove anche l’indifferenza interviene a fare la sua parte. Ma Simonelli, da poeta autentico, non giudica mai, si limita a declinare i fatti, a evidenziare emozioni, a registrare colloqui sul filo di una mancata comunicazione. Per rovesciare una formula nietzscheana, spesso adoperata per autori della modernità, il suo è un «pathos della vicinanza», attraverso cui esibisce un teatro quotidiano scandito da riti e costumi di nessun credito.

Marco Simonelli, Il pianto dell’aragosta, Edizioni d’If, 2015, e. 16.00

Ménage

Sarà un incidente banalissimo:
un quadro appeso storto nell’ingresso,
il bicchiere che cade e si rovescia
sulla tovaglia bianca di bucato.

Sarà uno schizzo,
uno scatto imprevisto e immotivato.
Qualcosa di diverso.
Di spropositato.

Sarà come voltarsi all’improvviso
e vedere un totale sconosciuto
là dove poco fa c’era il tuo viso.


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