venerdì 1 luglio 2016

Per Yves Bonnefoy, pensando a Le assi curve

Yves Bonnefoy ci ha lasciati. Posto, come omaggio e come ricordo, alcune riflessioni su uno dei suoi ultimi libri, Le assi curve, apparso in traduzione italiana nel 2007.




Rispetto ad autori arroccati nella precarietà del loro vissuto, in Bonnefoy si assiste a un sistematico ampliamento d’orizzonte: il margine di individuale che talora traspare e pone il sigillo della necessità su questa grande poesia - ovvero quel lento, inesorabile accompagnarsi alla presenza della caducità e della morte - marca fin dagli esordi l’officina di questo autore, ponendone gli esiti in una tradizione di poesia pensante. A differenza di altri compagni di strada, pur illustri come Deguy, Bonnefoy sa che l’equilibrio tra metafora e riflessione va raggiunto attraverso il conio di immagini eloquenti, ma pur sempre immagini. Probabilmente, nell’area francofona e in una contiguità di generazione, solo Stéfan e Jaccottet, pur con i dovuti distinguo, hanno saputo nel tempo elaborare un proprio riconoscibile apparato iconico, che si realizza e agisce nella straordinaria compattezza di uno stile: ovvero nel raggiungimento di una lingua piena, totale, che si staglia miracolosamente sulla palude postmoderna, nutrendosi di vita e di filosofia, sintetizzandole in un nuovo codice. È una lingua ritagliata dalla complessità del presente, dal palese discernimento delle sue illusioni e delle sue lusinghe; una lingua che parla il lessico riconoscibilissimo della classicità. Questo segna il discrimine di Bonnefoy rispetto alla poesia che è venuta dopo di lui: non v’è traccia nei suoi versi di alcun atteggiamento classico, ma vi si riscontra l’autenticità di un sapienziale, maturato distacco dal contingente, e l’approdo non alla facile, scontata deriva metastorica di molta poesia del tardo Novecento, quanto a quella lunghezza d’onda che trascende l’attualità, ne distilla la semantica essenziale e la trascina nuovamente verso il futuro. Insomma, l’onda dell’inattualità, potente e ricca di fertilissimi detriti, quelle «pietre» che così frequentemente siglano molti dei suoi componimenti.
Verrebbe da considerare che i suoi versi si siano assestati dentro un principio coerente, dentro un vero e proprio logos, lungo quel filone che da Pascal giunge nel pieno della modernità, a Leopardi, ai romantici tedeschi (meno alla pregnante visionarietà degli inglesi, almeno quelli di prima generazione); laddove il pensiero si condensa in una forma altra e si affaccia pericolosamente sui territori della finitudine e del nulla, quella stessa forma interviene a sostenerlo e a riscattarlo. E come accade a ogni sincera aspirazione alla chiarezza, anche Le assi curve, apparso nella traduzione di Fabio Scotto, delimita nell’immediato un proprio territorio esplorabile, aperto alle suggestioni della lettura, alla fascinazione dei suoi attraversamenti. Il titolo, al di qua delle connotazioni che andrà assumendo nei testi, suggerisce fin dall’inizio un duplice significato spaziale, rinviando estensivamente alla curvatura della volta celeste, alla sua discussa infinità, così come alla tortuosità di un percorso speculativo, nella cui difficoltà si riflette la dolente complessità dell’esistente, la sua inafferrabilità.
Il lettore italiano entra all’interno di questo libro con il viatico di un repêchage simbolista, pascoliano, dal titolo eloquente: Les rainettes, le soir (Le raganelle, la sera). Certo, manca qui il magnetismo della musicalità di Myricae, la sua impressionante orchestrazione e il testo appare tutt’altro che un dovuto omaggio, pur riconoscendo i palesi legami di Bonnefoy con la nostra cultura; e rispetto ai possibili modelli, di qua e di là delle Alpi, a dominare è una forte corrente di immagini, che sembra trascinarsi in un affresco ontologico, in una vorticosa ricognizione dell’essere e della sua identità, rievocando perfino una notissimo luogo montaliano. Ecco questo breve testo d’apertura: «Rauche erano le voci / Delle raganelle la sera, / Qui dove l’acqua della vasca, scorrendo silenziosa, / Brillava nell’erba. // E rosso era il cielo / Nei bicchieri vuoti, / Tutto un fiume la luna / Sulla tavola terrestre. // Afferravano o no le nostre mani, / La stessa abbondanza. / Aperti o chiusi i nostri occhi, / La stessa luce».
La classicità di Bonnefoy si racchiude e si esemplifica nello spazio di questi pochi versi, non tanto per l’evidente dialettica con il mondo naturale, con la densità dei suoi archetipi, sole (sebbene rappresentato al crepuscolo, per metonimia, dal cielo arrossato) e luna, quanto per la piana colloquialità, per quella domanda finale inattesa, folgorante anche se priva di punto interrogativo, come fosse rimasta sospesa a metà tra un quesito drammatico e un’asserzione duramente conquistata. E per quel verbo, «afferrare» (nell’originale non il corrispettivo saisir ma il più sfumato prendre, anche se la scelta del traduttore resta più che condivisibile), declinato nell’indefinita iteratività dell’imperfetto, come ad assumere una più marcata esemplarità, intrisa di vitalismo, comprensione, riconoscimento dei soggetti nella loro umana limitatezza, davanti a una natura che tutto può contenere e riassumere e, al contempo, disperdere, affidando silenziosamente, come l’acqua che fuoriesce dalla vasca, la propria materia al fluire spossessante del tempo. Bonnefoy si riappropria, per rielaborarla, della formula tradizionale che accomuna sullo stesso piano simbolico l’”inafferrabilità” dell’acqua e della storia (ecco motivata la scelta di Fabio Scotto), dai latini a Brodskij, e chiude modernamente il suo componimento con una modulazione topica del mondo simbolista, la «luce». Ne ritroviamo le ragioni profonde nel poemetto centrale del libro, sintomaticamente intitolato Dans le leurre des mots (Nell’inganno delle parole); dove, rivolgendosi direttamente alla propria musa, il poeta può tornare a dichiarare con rara lucidità: «Io so che ti disprezzano e ti negano, […] / Che dicono infetta l’acqua che tu porti / A quelli che tuttavia desiderano bere / E delusi si allontanano, verso la morte. // […] Ma so comunque che non esiste altra stella / Che si muova, misteriosamente, auguralmente, / Nel cielo illusorio degli astri fissi, / Se non la tua barca sempre oscura, ma dove ombre / Si raggruppano a prua, e perfino cantano / Come un tempo quelli che arrivavano, quando s’ingrandiva / Davanti a loro, alla fine del lungo viaggio, / La terra nella schiuma, e brillava il faro». Sono versi eloquentissimi, epicamente proiettati verso la necessità e l’inattualità che segnano tutto il suo percorso. È in quel «perfino» la pervicace potenza della poesia, per Bonnefoy, in questa capacità di stupore: nel fatto stesso di poter ancora cantare, senza sapere dove si concluderà il tragitto, se mai il viaggio avrà il suo termine su una costa illuminata. La barca dei poeti è «sempre oscura», come il destino, come la morte.


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