venerdì 10 giugno 2016

Sulla critica apocalittica

Non sono certo una novità, gli atteggiamenti apocalittici nelle tante, forse eccessive discussioni che avvengono intorno alla poesia contemporanea. Quando la mia generazione, quella dei nati negli anni Sessanta, cominciava timidamente a mostrarsi, si avvertiva la necessità di confrontarsi, ma spazi e occasioni erano allora piuttosto limitati. La scena era occupata a buon diritto dai padri e dai fratelli maggiori; il dibattito era confinato negli scritti che si andavano raccogliendo intorno a quelle figure, per lo più recensioni o ampi servizi di qualche rotocalco, che miravano a fare il punto e a restituire un po’ di visibilità. Neppure la nascita di una rivista “generalista” come «Poesia» servì ad aprire nuove strade di riflessione, ma a rispecchiare parzialmente lo stato dell’arte, come si dice. Sarebbe stata piuttosto la nuova ondata avanguardistica a farsene carico, mentre nuove esperienze, come quella di «Scarto minimo», restavano più in ombra (come, del resto, molta dell’attività svolta dai poeti e dai critici che si affacciavano sulla scena letteraria tra la fine degli anni Ottanta e i primi anni Novanta).
Si trattava di un silenzio imbarazzante, destinato però a durare poco e a tramutarsi nel suo esatto contrario. L’avvento della rete avrebbe dotato la generazione successiva di uno strumento formidabile, quanto infido; nel giro di pochi anni nuovi piccoli editori e nuove riviste avrebbero occupato una dimensione fino ad allora inimmaginabile, con una moltiplicazione a dismisura di libri e nomi. Nonché di festival, premi, letture pubbliche. Per il critico diventava, di fatto, una sfida impossibile a sostenersi. I luoghi del dibattito erano divenuti, improvvisamente, troppi. Orientarsi in questo panorama così labirintico o polveroso, a seconda della prospettiva, significava perdersi dietro un’offerta sproporzionata, che incarnava però un bisogno e una reazione: la conquista, in ogni caso e in ogni modo, di uno spazio creativo, perfino ignorando la consistenza di un vero progetto; lo svuotamento, per ragioni anagrafiche prima che culturali, di una società letteraria che fino a quell’altezza aveva potuto esercitare un potere selettivo. Con nuovi strumenti di diffusione, e senza più i filtri del passato, la strada era finalmente libera. Ma per chi?
Furono gli anni del moltiplicarsi delle antologie, e delle discussioni che seguirono: proposte spesso lontane tra loro, al punto da contenere autori e testi diversissimi e orientamenti inconciliabili. I criteri di scelta non sempre adeguatamente motivati - neppure nelle operazioni che partivano da un intento puramente tematico - o comunque poco condivisibili, talvolta ridotti a un’improvvisata sociologia della letteratura o a prese di posizione ideologiche fuori tempo massimo, hanno reso quella stagione, forse non ancora conclusa, una grande occasione perduta. La vitalità di tutti questi fermenti ha finito per incarnare, piuttosto che un’autentica necessità estetica, un problema di identità. Nessun altro genere letterario, infatti, è andato incontro a una simile sorte: non il teatro, non la narrativa e tanto meno la saggistica. Nessun genere investe sull’io scrivente quanto la poesia (ma è chiaro che si tratta di un errore prospettico); nessun genere ha mai sollevato di conseguenza tanta agitazione e tanta energia polemica. Ne è venuta una confusione di ruoli, se anche il critico ha potuto conquistarsi un’identità trasformandosi in antologista; se la quantità delle offerte ha smarrito il lettore, disabituato ormai al giudizio sereno e senza sufficienti orientamenti. Ne è venuta, paradossalmente, una difficoltà comunicativa, un atteggiamento di sospetto da parte di alcuni media, che si è tramutato in una presa di distanza, in una rimozione. Basta confrontare le bibliografie sui poeti di venti o trent’anni fa con quelle attuali: la maggior parte dei contributi è ospitata, non a caso, sul web.
Insomma, è davvero felice questa esplosione di poesia o va invece letta in un’ottica non più letteraria, ma di emergenza sociale? Il dibattito attuale su quali fondamenti poggia, su quali presupposti? I legami con la tradizione sembrano ormai sciolti, all’insegna di una libertà che confonde i piani della storia e dell’espressione, con risoluzioni spesso anacronistiche: come se,  di fatto, non sia mai esistita una storia della poesia. Eppure tutto questo ha poco a che fare con una visione apocalittica.  Certo, la quantità può diventare un problema e richiedere altre chiavi di lettura, ma la sfida resta aperta, deve restare aperta. Ridurre un panorama, per quanto frammentario ma comunque vivace, al grado zero della poesia significa ammettere una sorta di snobistica impotenza, o incapacità. In questo senso l’apocalisse è davvero il più feroce degli alibi: è l’atto di dismissione di ogni funzione critica. C’è in questa visione qualcosa di necrofilo, o di vampiristico: il canto in morte della poesia tiene vivi i cantori della morte, i quali non hanno nient’altro da dire.

Un amico artista che vive a Parigi, Alberto Sorbelli, mi ha ricordato qualcosa di importante, a livello europeo: i soldi sono finiti. È un dato confortante, per la poesia, per questo genere che è sempre rimasto fuori da ogni mercato. Se i soldi sono finiti, la poesia ritornerà. Con buona pace degli apocalittici. E a ben vedere, non se ne è mai andata.

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