martedì 5 aprile 2016

La chiave di vetro

Torna in libreria, riedito da Empirìa, La chiave di vetro, il libro d'esordio di Elio Pecora, apparso nel 1970. In questa nuova edizione c'è una mia nota finale, che ripropongo qui. Auguri a Elio, nel giorno del suo compleanno.



Quando Pier Paolo Pasolini, nel febbraio del ’71, salutò l’esordio in poesia di Dario Bellezza sostenendo che l’autore era «il miglior poeta della nuova generazione», quel viatico non mancò di suscitare in qualcuno dubbi e fastidi. In realtà Pasolini ebbe facile gioco, nel senso che Bellezza – così sembrava – era giunto al libro con un certo anticipo, rispetto a quelli che si sarebbero rivelati, di lì a qualche anno, i suoi compagni di strada. A vederla da qui, a diversi decenni di distanza, la prima metà degli anni Settanta somiglia a una grande officina i cui manufatti dovevano mostrarsi soprattutto nella seconda parte, a cominciare da alcune antologie militanti e polemiche: Il pubblico della poesia, Il poeta postumo, fino a La parola innamorata e a Poesia degli anni Settanta di Antonio Porta, che piuttosto che riepilogare il decennio e fare da cerniera con quello successivo, di fatto lo chiusero, passando il testimone a una nuova stagione della poesia italiana. Il decennio dell’«io che brucia» si concludeva bruscamente, con il crollo – reale prima che simbolico – del palco del festival poetico di Castelporziano.
La questione non riguardava tanto chi fosse o meno il migliore: in poesia vince chi ha il fiato lungo, non il passo più veloce. La parte di verità di quell’affermazione di Pasolini non è nel giudizio di merito, ma nella parola «generazione». Dalle pagine delle riviste, e soprattutto da quelle di «Nuovi Argomenti», il poeta-critico era sempre in grado di monitorare lo stato della nuova letteratura, di misurarsi con le scritture più recenti e di promuoverle. Dunque esisteva una generazione, ancora nota solo agli addetti ai lavori, ma che ben presto sarebbe andata incontro ai suoi lettori: Invettive e licenze ne fu il frutto immediatamente visibile, anche se Bellezza aveva già pubblicato un libro in prosa l’anno precedente, dal titolo L’innocenza. A firmare la presentazione era stato Moravia, e il coté era confermato. Eppure Invettive e licenze non fu, come sarebbe apparso per molto tempo, l’unico libro della «nuova generazione» a vedere la luce in quel periodo. Solo due mesi prima, sul finire dell’anno 1970, l’editore Cappelli aveva dato alle stampe un altro esordiente, questa volta assoluto. Il suo nome era sconosciuto ai più: aveva iniziato da poco a collaborare a «Mondo operaio» e alle pagine culturali della «Voce repubblicana», ma nulla di suo circolava ancora sui periodici letterari. Era nato in una provincia del Sud, si era trasferito a Napoli a otto anni e lì aveva proseguito gli studi per poi approdare a Roma. In quello straordinario crocevia di personaggi che fu la Libreria Bocca, a Piazza di Spagna, poté imbattersi in molti degli esponenti della cultura non solo romana, dei quali seppe conquistarsi l’amicizia.
Cominciò così, con vari passaggi di mano, la storia di quel libro intitolato dapprima Narciso in pensiero, e successivamente, su invito dell’editore, La chiave di vetro. Ad accoglierlo in casa editrice, a seguirne la stampa e a scriverne il risvolto, rimasto anonimo, fu Mario Ramous, un poeta forse oggi poco letto, ma straordinario conoscitore della poesia classica e autore di un fortunato manuale di metrica. Tra coloro che lo ricevettero ci fu Elsa Morante, che solo nel 1974 avrebbe congedato il primo libro di Patrizia Cavalli, imponendo il titolo Le mie poesie non cambieranno il mondo: la generazione cominciava lentamente a comporsi. Eppure, nonostante il primato, e nonostante l’accoglienza entusiastica dei lettori e le recensioni di Giancarlo Vigorelli e dello stesso Bellezza, La chiave di vetro era destinato a restare in disparte, rispetto ai clamori di cui fruì Invettive e licenze. Per quanto improprio, il giudizio di Pasolini impose delle distanze che furono, col senno di poi, di ordine letterario.
Mai due esordi poetici così ravvicinati furono altrettanto importanti e lontani tra loro. Il libro di Bellezza cavalcava agilmente, e con la giusta dose di sfrontatezza, la migliore tradizione italiana, per affondarvi infine come in una palude, dalle cui fangosità non ci si decide a uscire. Infatti in quella lingua così provocatoriamente barocca, dalla sintassi un po’ vetusta e dai toni sempre belligeranti, Bellezza era assolutamente a suo agio. Un po’ meno il suo lettore, forse, anche se le recenti dilatazioni sperimentali dei «novissimi» avevano ormai abituato il pubblico agli esiti più dirompenti. Ma non bastò: anche Invettive e licenze dovette presto scontrarsi con ben altre istanze collettive, rispetto a quelle dell’eros e delle sue rivendicazioni, al di là o al di qua del genere. Del resto, lo spazio sociale dello scandalo, nonché il suo potere di erodere le convenzioni, si era già piuttosto consumato quando il libro apparve e gli anni Settanta si sarebbero configurati come il decennio del femminismo, del divorzio, dell’aborto. E del piombo.
La chiave di vetro si presentò invece come un’opera decisamente insolita, seppure in linea con l’idea di antinaturalismo e di svecchiamento invocata dalle avanguardie. Era un testo che guardava all’Europa, direttamente e senza mediazione alcuna: lo sguardo dello scrittore si apriva intanto alla contaminazione, e questa, che rimane oggi il punto di forza più convincente di quell’esordio, nonché la struttura evidente del libro, fu con ogni probabilità anche la causa di un’incertezza, sul piano della ricezione. Cosa aveva il lettore sotto gli occhi? Si trattava di un libro in versi, di un esperimento narrativo o di qualcos’altro? La disposizione tipografica, così voluta dallo stesso autore, non aiutava e non aiuterebbe anche adesso, se la nostra lente non fosse stata messa adeguatamente a fuoco e ripulita di quei pregiudizi che allora rimandavano a precisi steccati ideologici e creativi. La tentazione di arginare un’opera così fluida in una precisa quanto inutile tassonomia, o quella di costruirle intorno una possibile teoria per poi costringerla nel territorio angusto della sconfessione, ha impedito quegli affondi critici che ad altre opere non sono mancati, ma l’ha anche messa al riparo da certe urgenze storiografiche e manualistiche. Possiamo finalmente leggere La chiave di vetro come un prosimetro indefinito, al cui interno il passaggio di forma resta spesso inavvertito e inavvertibile. Quando il narrato cede al lirico, non sempre la prosa cede al verso. E lo stesso accade se invertiamo l’ordine e rovesciamo la prospettiva. Insomma, l’evidenza della novità congiurava contro la natura di quella novità, la occultava tra le pieghe di una scrittura mobilissima, la cui materia autobiografica si distaccava precocemente dai modi in cui la «nuova generazione», e Bellezza stesso, l’avrebbero «bruciata».
Faticheremmo non poco, infatti, a cercare in queste pagine l’«io che brucia». Non c’è alcun soggetto in fiamme, ma il ritorno pieno, e problematico, di quello che Debenedetti aveva definito «il personaggio uomo». Un’intera e ampia stagione sperimentale si affaccia nella Chiave di vetro, e con essa una geografia letteraria che comprende l’Inghilterra di Virginia Woolf e la Francia di Michel Butor, nonché la grande esperienza della Mitteleuropa. Ma sotto questo ritmo si agita soprattutto il Gombrowicz dei diari. Elio Pecora, questo il nome dell’autore, non aveva dunque mancato di guardarsi intorno e si era recato da Roma fino in Baviera. Lì, a opportuna distanza dai luoghi più suoi, si era arreso alla scrittura.
Di italiano questo libro conservava solo la lingua. Che i più accorti lo accogliessero con giudizi lusinghieri è credibile almeno quanto la defezione di chi allora non seppe, o non volle, misurarsi con esso. La complessità dei suoi referenti si mostra oggi, a più di quarant’anni dalla prima edizione, come una sfida accattivante sul piano dell’interpretazione, ma anche su quello della ricostruzione di un contesto. Di fatto la Mitteleuropa non aveva perduto nulla del suo fascino e del suo prestigio, per quanto il raggio dei suoi influssi risultasse indubbiamente indebolito. Perché la sua forza propulsiva tornasse pienamente ad accendersi, bisognava attendere di rileggere Walser, o che apparissero le prime traduzioni da Thomas Bernhard. Quella cultura, invece, aveva profondamente inciso nella formazione letteraria di Pecora, accanto alla frequentazione dei classici. Irrorando quella matrice antica con nuovi attriti e nuove tensioni, psicologizzandola. Binswanger sarebbe stato tradotto solo l’anno seguente, ma il percorso di «costituzione del mondo» attraverso l’esercizio di una soggettività intenzionale quanto critica era già consolidato nelle pagine che oggi rileggiamo e affidiamo a nuovi lettori.

Al di là delle suggestioni formali (o informali, a seconda del punto di vista), era dunque questo il vero nodo da sciogliere: come coniugare il patrimonio greco e latino con la piena modernità del Novecento più inquieto e avvertito; come declinare le istanze di consapevolezza di un io «che sa della vita, di sapere che non basta sapere», come scrisse Ramous, attraverso l’elegia degli augustei o le malinconie arcadiche. L’estensore del risvolto, da classicista, avrà forse trovato le sue risposte. Ne azzardo una, sulla scia del titolo primitivo e dei suoi suggerimenti. Ogni percorso di osservazione dell’io risponde necessariamente a un principio di oggettivazione: Narciso contempla se stesso perché l’acqua ne riflette il sembiante. Solo così sarà possibile chiarire il ruolo effettivo che la parte di lirismo e quella di narratività inscenano in questa costruzione; e si tratta di un ruolo ibrido, cangiante come le mille maschere di Dioniso. Il lirismo si fa paradossalmente oggettivo. E Narciso affonda tra le acque: Dioniso, il dio misterioso, ci attende proprio lì dove siamo certi che «Le cose stanno così». E come nel frammento di Eraclito a mo’ di epigrafe, «non dice, non nasconde, ma accenna», suggerendo la vera forma di questa scrittura, e la sua straordinaria velocità che ci viene consegnata intatta.

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