martedì 26 aprile 2016

AILANTO n. 29 - Su Marco Vitale


La vita come apparenza, le percezioni deviate da una sorta di schermo tra il soggetto che pretende di vivere e di esperire la sua realtà. Non è un tema nuovo, né originale, ampiamente esplorato dal nostro Novecento migliore (Montale docet), ma ancora fertile, se Marco Vitale ne fa uno dei nuclei del nuovo libro, Diversorium, apparso a dieci anni da Canone semplice. Vorrei partire da qui, dalle evanescenze di cui Vitale è maestro, dai suoi effetti umbratili, dalle luci fittizie e ingannevoli che spesso accompagnano i suoi versi, per tentare di circoscrivere un microcosmo affettivo profondamente turbato dalle perdite, dall’oscillazione tra appartenenza e distacco: una vita sentimentale continuamente in bilico, i cui equilibri, tutt’altro che fragili però, dimostrano una capacità di resistenza e di saldezza, al di là della parete dell’effimero e delle sue seduzioni. Keats, che di precarietà affettive se ne intendeva, la chiamava «capacità negativa». Ma questo poeta non si limita a decifrare i segnali del transeunte e a registrarne la finitudine; la sua poesia ci aiuta a comprendere che dietro la labilità dell’esistenza e delle relazioni che la sostengono c’è una debolezza ancora più forte, che solo in parte coinvolge i destini individuali, e che riguarda, più a fondo, quella comune condizione di sospensione, di cosciente non-sapere, di indefinito arrendersi a un moto tellurico, imprevisto e imprevedibile, la cui ineffabilità è forse la materia più autentica di questo libro.
Vitale sceglie una precisa prospettiva, un preciso punto di osservazione: il «diversorium», ovvero la locanda della notte di Natale, dalla quale si resta inevitabilmente esclusi. Ma non è lì, nella confusione, nel pieno del locale, che accade ciò che è veramente importante, almeno per quella notte. «La vita – scrive il poeta in nota – è quella cosa che accade mentre ci occupiamo d’altro». È proprio questa diffrazione, paradossalmente, a smuovere un diverso approccio a quella vita; piuttosto che rappresentare una possibile distrazione (altro felice tema novecentesco, che Vitale sembra tratteggiare nei reportage dei suo viaggi e che invece elude abilmente), il trovarsi altrove rispetto al fulcro degli eventi agita ben altri fantasmi, e il mondo apparente, quel mondo che il primo Montale poteva filtrare attraverso Schopenhauer, diventa un concretissimo amalgama di figure, la cui densità affettiva è prova indiscussa del loro esserci, e non solo del loro esserci state. La poesia supera la perdita? Forse sì, se abbiamo ancora l’energia di evocare, e non tanto per magia di scrittura, quanto per materializzare un vissuto che ancora urge, e nel suo urgere chiede inevitabilmente di essere vero.
Vitale fa ricorso all’elegia, o adombra i suoi versi di una certa solennità, di una vetustà a cui concorre la sapienza retorica, un artigianato ben collaudato, eppure questa distanza anche nel tempo della scrittura non ipoteca affatto e non limita l’energia con cui  consapevolmente si rivolge al passato e filtra il presente, per farne ancora una volta materia di un insidioso trascorso. C’è sempre una «patina» tra il soggetto e la vita, e forse è proprio la poesia, che di quella vita fa inesorabilmente vissuto, ad abbatterla con la severità serena di chi sa di dover procedere «through a thousand miles of dead grass», come recita l’epigrafe iniziale da Pound.
Marco Vitale, Diversorium, Il Labirinto, 2016, e. 12.00.

A volte una poesia è soltanto un piccolo
commento su una foto
un soffio fatto di niente come dire
guarda, come sorridevate
qui quando la luce
dorava un giorno senza fine, guarda
come eravate giovani, che buffi
gli abiti di allora. Dove siete?

Nessun commento:

Posta un commento