lunedì 1 febbraio 2016

Un intervento su poesia e teatro

Posto qualche appunto di un recente intervento a Palermo su poesia e teatro, arti della trasformazione. Con qualche ossessione personale, naturalmente.

Mi vado sempre più convincendo che non esista nulla di più antico del moderno, anche di quello più tardo. Così, per dire qualcosa sulla poesia oggi, o di oggi, non ho ancora capito bene, mi accorgo che uno straordinario cortocircuito riporta la letteratura recente ad atteggiamenti percettivi e a un’ontologia che sembrano venire dal mondo classico. Anche nelle sue estenuazioni postmoderne, questa letteratura non ha cessato di cercare il dialogo con una diversa antropologia che solo approssimativamente potrebbe definirsi pre-cristiana e con più precisione nietzcheana. Di questa antropologia fa parte quel vasto territorio mitologico che, tra descensus ad inferos per interrogare se stessi e il proprio destino, ricerche di un’anteriorità perduta raggiungibile solo attraverso la lingua dei poeti e ostinati rifiuti alla contemplazione di una verità poco confortante e probabilmente poco interessante, si riafferma come uno dei luoghi privilegiati delle scritture contemporanee, siano esse di matrice lirica, narrativa o drammaturgica. Personalmente non ho mai avuto diffidenza verso l’ovvio e da antropologo della poesia non posso fare a meno di riprendere da ciò che ormai, divenuto talmente consueto da sparire alla nostra attenzione, può apparire deprivato di senso, e invece parla ancora se solo spostiamo il nostro abituale punto di vista. Pensando alla poesia di oggi e ai suoi rapporti con le altre espressioni non posso non richiamare una figura di minor rilievo rispetto alle muse, ma non per questo meno pertinente: una figura mitologica secondaria, un “dio ulteriore” come avrebbe detto Manganelli, confinato in un ristretto olimpo per eruditi eppure, nella mia prospettiva, profondamente compromessa con le dinamiche della poesia ma anche del teatro, che in origine erano una sola cosa. Parlo di una antica divinità italica, Vertumno, il dio del volgere delle stagioni, dei mutamenti, delle metamorfosi. Josif Brodskij ne traccia un deciso ritratto: «sfiorarti è sfiorare / una somma astronomica di cellule: / il suo prezzo è sempre il destino / e solo tenerezza ha in proporzione»:  La radice del suo nome rinvia a vertere, e quindi al verso. La poesia e il teatro, ad esempio, come arti della trasformazione: trasformazione del reale per via linguistica, sia essa di natura verbale o gestuale, che si concretizza nelle variazioni stesse del corpo, nel trucco e nella mimica.
La poesia di oggi parla il linguaggio della dissociazione, un linguaggio che si traveste, con la velocità di Vertumno, fino a mostrarsi come idioma, o enigma, della dissoluzione del corpo e dell’identità. Proprio nell’epoca delle immagini, quindi, classicamente, delle illusioni e dei simulacri, nonché nell’epoca in cui il nemico, il soggetto da sottoporre a un processo critico, è quanto mai subdolo e poco riconoscibile, avendo preso egli stesso virtù e difetti di Vertumno, la lingua della scena implode e la parola torna a farsi scavo semantico, approdando per vie diverse alla poesia, che ritrova, a dispetto di tutto, una sua pervasività.
All’altro lato del mio discorso sta un’altra figura classica e non può che essere Antigone. Ogni volta che le parole di Antigone mi risuonano dal passato, non posso fare a meno di legare quella pietà alla potenza di una parola, la cui eco inevitabilmente si spande oltre la volontà di una sepoltura e viene a significarmi quanto del moto affettivo ricade sul coraggio del rifiuto e sulla opportunità di sottrarsi al comando. Opportunità è un termine spesso ambiguo, che nella modernità ha assunto anche il colore oscuro del guadagno personale; è opportuno ciò che concorre alla difesa dello steccato e degli interessi individuali, nei quali quasi mai si inverano quelli della collettività. Con il suo gesto Antigone si pone piuttosto sul versante di una necessità che è, al tempo stesso, sororale ed eversiva, quindi storica e sociale; una necessità che muove una norma superiore a qualsivoglia legge, poiché in questo codice non scritto è il luogo dove individuo e società trovano il vero terreno comune.
Certamente, c’è una forte spinta emozionale, dietro tutto ciò. Ed è per questo che Antigone mi appare come una metafora non solo possibile, ma concretamente attiva, di una scrittura che sappia assestarsi come ipotesi del rifiuto. La naturalezza non è soltanto scelta immediata di infrangere una legge nella quale non ci si può riconoscere, dal momento che Antigone non sembra neppure scegliere: agisce, portata semplicemente, come la sua parola netta e precisa, da un dovere più antico. E se consideriamo questa naturalezza, appunto, non possiamo non credere che ogni scrittura netta e precisa, nel lavoro che conduce alla costruzione di uno stile, sia una scrittura partigiana, sia cioè un atto di per sé cospirativo, splendidamente inattuale.
Voglio dire, insomma, che se un lavoro di e sulla scrittura è già, di per sé, movimento di un pensiero critico, spostamento della percettiva usuale dalla quale ci affacciamo ad osservare le cose del mondo, allora la poesia, che rappresenta ancora la sintesi, l’esito più alto di tale movimento, è in ogni sua forma un’azione rivolta ad aggiungere qualcosa al pensiero della comunità. Anche nelle sue espressioni più liriche e intimistiche, ciò che continuiamo a chiamare poesia è un’impresa che ci mette a parte di una stratificazione della verità, di una complessità comunque circoscritta dalla nostra finitudine e per questo, sempre e comunque, civile, anche laddove il movente politico può risultare secondario o addirittura assente. Ma è questo il punto: non può esserci in realtà alcun movente, non può darsi alcun indirizzo, a rischio di avventurarsi dentro un progetto destinato ad essere in parte o del tutto sconfessato.
Non posso credere alle etichette di genere spesso imposte alla poesia di oggi, perché ogni atto di vera poesia, nella non-società dell’immagine reificata, della coazione alla solitudine, è una scelta di posizione: è la scelta di adempiere a quel dovere antico, di rispondere a quella necessità. Ciascuna parola apre una voragine di senso e ci allontana sempre più dalla superficie del mondo e dalle sue incrostazioni, come spinge Antigone, ogni volta che parla, fuori dalle mura, all’alba, a seppellire il corpo del fratello.

L’eccesso di metamorfismo diviene sintomo di sparizione, di dissoluzione e assenza. Le astronomiche cellule di Vertumno sono appena sufficienti a sostenere, linguisticamente, il netto rifiuto di Antigone, che in effetti si stempera in un susseguirsi di codici obliqui, di mimetismi coatti, di strategie ora manifeste ora difensive rispetto allo scenario della storia. Ma è proprio questa la vitalità del contemporaneo, la sua energia, il suo sprigionare un senso di  non finito anche nel recinto finito della rappresentazione. Credo che la poesia di oggi, per questa via, sia penetrata, traslata in un certo modo di fare teatro, nei suoi aspetti più visibili. Se è vero, come credo, che tra le arti di qua e di là dal millennio il teatro non solo goda di una evidente felicità espressiva, a dispetto delle burocrazie, ma sia l’unico luogo, come ricordava Barberio Corsetti, dove si può esprimere, anche nel silenzio, un pensiero collettivo sul mondo, ancora una volta questa mi pare un’efficacissima definizione di ciò che mi piace intendere quando parlo e quando scrivo di poesia.

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