martedì 19 gennaio 2016

Annalisa Manstretta, Gli ospiti delle stagioni

È appena apparso il nuovo libro di poesie di Annalisa Manstretta, per l'editore ATì. Si intitola Gli ospiti delle stagioni. Posto il mio scritto che lo accompagna come postfazione e auguro successo a questa nuova impresa.




Provo a riassumere il vasto bestiario alato che popola queste nuove poesie di Annalisa Manstretta: civette, gufi, aquile, falchi, poiane, gazze, cuculi, passeri, merli, cince, cardellini, fringuelli, rondini, corvi, codirossi. E i più domestici galli, galline, pappagalli. Se pure rinunciassimo a scovare, o solo a intuire la presenza delle creature di terra, basterebbero già gli uccelli a farci spostare continuamente lo sguardo tra l’alto e il basso, e infine verso gli orizzonti di questi paesaggi stagionali.
Una delle poesie si intitola Due e direi che questo è il numero che domina: siamo di fronte a un’opera decisamente binaria, agita da un doppio movimento interno. Così è dei nostri occhi, invitati spesso a frequentare dimensioni opposte, lontane, che la scrittura di questo libro rende invece complementari: dalla terra verso il cielo, dal cielo di nuovo verso la terra, come accade al merlo in Fuori di casa. Da una parte c’è il confronto, la dialettica tra l’immobilità e il divenire, che è nel grande apparato allegorico delle stagioni; dall’altra ci sono gli «ospiti», le figure ora rassicuranti, ma perlopiù inquietanti, che si muovono in una geografia prossima, riconoscibile, finanche abituale. Questi personaggi, reali o immaginari, animali di bosco, montagna e pianura, paesi, oppure costruzioni della mente, abitatori dei sogni, sembrano perfettamente a loro agio in questi versi: ne sono gli autentici inquilini. L’elemento umano, pure presente, occupa uno spazio, e un’attenzione, decisamente inferiori. Alla fine, nell’immensa sfera del cielo, non resta che la luna, o il sole: gli astri, per tradizione, testimoni e indifferenti.
Lo sguardo e le stagioni, dunque: ovvero lo spazio e il tempo. Con queste categorie, modulate attraverso le rappresentazioni della natura, Annalisa Manstretta disegna quadri mobili, ne cattura le inquietudini più interne, lascia affiorare da sotto l’apparenza del bozzetto, della sua pennellata ora diretta, ora impressionistica, il piccolo, ma significativo affresco delle tensioni che rendono vivo ed essenziale il suo rapporto con il mondo dell’esperienza. Un mondo che «ha dentro gli occhi della gente e non ci vede». La descrizione non resta mai, in ogni poesia di questo libro, un tentativo fine a se stesso. Il cambio delle stagioni, l’apparizione di un animale o di una nuvola, l’accendersi di un tramonto, le fasi della luna compongono nel loro insieme una vera e propria fenomenologia della percezione visiva, dominata però dall’impossibilità, dalla chiusura, dalla mancata reciprocità tra l’osservante e l’osservato: una «solitudine corale». Lo sguardo, proprio laddove sembra abbracciare una porzione ampia di realtà, è già imploso nei territori ambigui delle metafore e dei simboli, guarda al proprio interno, retroflesso tra i fantasmi. Questi paesaggi non hanno forma, simili alle nuvole cangianti che l’immaginazione legge come draghi; o meglio, la loro forma è il movimento, la metamorfosi, il superamento della forma stessa.
Anche il tempo è invertito, non è quello convenzionale che procede dalla primavera: la rinascita, la rigenerazione non sono qui il punto di partenza, ma una tappa nel percorso alterno tra luce e ombra, tra giorno  e notte. È il buio, infatti, a inaugurare questo libro: l’oscurità progressiva dell’autunno, la prima stagione evocata, che «ti accoglie già prima di cena» e allunga lo spazio delle notti. Uno spazio contrastivo: la vita animale riempie la scena, emerge in primo piano, ma il poeta registra tutta la propria inadeguatezza alla tenebra, al suo ritorno dopo i fasti dell’estate. «Non sono fatta per la notte», «Inadatta alla notte»: ammissioni che spostano anche il nostro consueto recinto simbolico verso un’inusitata zona d’accoglienza, verso regioni generose da cui penetrano altre ombre, altre rappresentazioni.
La sensazione è che la pluralità degli ospiti si condensi all’interno di un unico, vero ospite che qui, se la lettura è corretta, assume svariate identità, ora umane, ora animali, ora aeree e fantastiche. C’è il vento e il suo analogo femminile, la «venta»: ci sono, in perfetto parallelo, lupi e lupesse; e ancora i draghi, o la chimera che prende tutto il campo finora riservato alle specie del cielo, per poi scomparire lontano; e c’è anche un cacciatore, anzi il cacciatore, che penetra queste poesie come affacciato da una finestra kafkiana e ci immette fumi neri negli occhi, impedendoci ancora una volta di guardare e di essere guardati. A cosa rimandano tutte queste proiezioni di una sola, inquietante estraneità?
Mi rifaccio a un esempio distante, ma credo coerente con la spinta emotiva che regge la relazione tra soggetto e mondo in queste nuove poesie di Annalisa Manstretta. Nel bestiario assolutamente fantastico di Borges ci s’imbatte in una creatura particolare, il cui aspetto primario coincide proprio con l’invisibilità, con il sottrarsi allo sguardo. Il suo nome è inglese, perché Borges s’inventa di aver tratto questo strano animale da una leggenda dei boscaioli del Wiscounsin: si tratta dello Hide-behind. Nella solitudine di quelle foreste, gli uomini avvertono la sua presenza, sempre alle loro spalle, ma non riescono a scorgerlo, perché quando provano a voltarsi, anche con il più veloce degli scatti, lo Hide-behind è sempre più veloce di loro e resta per l’appunto invisibile. Percettibile ma non visibile: ciò che resta nascosto-dietro, come dice il suo nome. È una chiara allegoria di quel grumo inespresso di ossessioni, di ansie, di paure che domina ogni interiorità. Ma l’inadeguatezza alla notte che apre questo libro, quel buio che non lascia funzionare gli occhi, ancora pieni della luminosità estiva, non smuove forse altrettante ansie e paure?
Ogni stagione muove uno spavento. Voci di uccelli accompagnano la mutazione, «La paura non vuole concetti / va per variopinte figure aggressive / pesca nel medioevale, saccheggia i bestiari», scrive Manstretta. Ma sotto la superficie degli incubi, delle anamorfosi, il soggetto è chiamato a resistere, a dominarsi. C’è una carica gnomica che traspare a tratti e che riecheggia altre mostruosità, altri «giganti senza faccia»: no che non devi temere Lestrìgoni e Ciclopi, scriveva Kavafis, che con l’autrice condivide la riflessione sulla densità del tempo, e la tensione tra circolarità del mito e linearità della storia, della vita umana. Proprio questa tensione è il territorio dove le poesie di questo libro insorgono, poiché qui si interrompe il parallelismo fisiologico tra la sequenza delle stagioni e la crescita degli individui, il loro divenire. Anzi, quella linearità viene per sempre inscritta dietro il puntuale avvicendarsi di autunno e inverno, primavera e estate. Il paesaggio che si ripresenta non è mai lo stesso, ma tutt’al più un suo analogo, dal quale il soggetto è estraniato: la luna può tornare a brillare, ogni sera, mentre noi «spariamo di notte nelle nostre camere» e sono soltanto i nostri «panni leggeri» a dar conto che l’aria, tutt’intorno, si è fatta «più mite» (Panni leggeri).
Poco importa se aprile, come di fatto è, resta il più crudele dei mesi. Ogni stagione è un punto di svolta e vale per sé, di per sé. Sospeso tra flussi e immobilità, come tra Scilla e Cariddi, il soggetto può perfino immaginarsi di farsi lui stesso stagione, la quinta, quella fuori norma, extra-ordinaria: la stagione inattesa, senza occhi, non vista, e che non vede. Quella dove perfino la chiarità del sole risulta un inganno, un’apparenza e così lo spazio e il tempo, come già suggeriva Novalis in uno dei suoi inni. La stagione implicita, quella che ci riporta alla verità della notte.


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