martedì 24 febbraio 2015

Solstizio a Monreale - una fotocronaca

Fotocronaca della presentazione di Solstizio presso la Galleria Comunale di Arte Contemporanea «G. Sciortino», Monreale, 13 febbraio 2015. Con Elio Pecora, Giuseppe Cutino, Tot Basso, Ignazia Ferraro e Rocco Micale, che ha voluto e organizzato l'evento, iniziato alle 16,00 con la visita guidata al Fondo Antico della Biblioteca dei Benedettini.


Qui sono Con Elio Pecora, mentre osserviamo alcuni preziosissimi codici conservati presso il Fondo ed esposti al pubblico presente grazie all'infaticabile e coltissima Ignazia Ferraro.


Questa è una panoramica del Fondo Antico, con le sue preziose scaffalature e i soffitti affrescati.



Giuseppe Cutino legge le poesie da Il secondo trapezio, accompagnato dalla chitarra di Toti Basso.



Elio Pecora ascolta (e intanto pensa a quello che dirà a breve)



Giuseppe Cutino sta per terminare la sua lettura...



ed Elio Pecora comincia la sua densa introduzione; accanto a lui il quadro che Rocco Micale mi ha donato, ispirato a Davide e Golia. Golia, innamoratosi di Davide, gli si arrende consegnandogli simbolicamente la propria testa. Una bellissima interpretazione della poesia.


Giuseppe Cutino legge altre poesie: Davide e GoliaLa casa, Auden


Elio Pecora nuovamente in ascolto...


Il mio discorso e i saluti finali, con il sorriso di Toti Basso.
E, non da ultimo, i ringraziamenti a tutti quelli che hanno partecipato, di qua e di là dai microfoni; e un grazie speciale ad Alessandro Licata che è l'autore di queste fotografie.

domenica 22 febbraio 2015

Salvatore Ferlita su Solstizio


Posto una "breve" di Salvatore Ferlita, apparsa oggi su «la Repubblica», edizione di Palermo.



mercoledì 18 febbraio 2015

AILANTO n. 15 - Su Claudio Gargano



Claudio Gargano è quello che si dice un poeta “indipendente”. Lo è per la garbatezza con cui pubblica e dispensa le sue raccolte, tutte edite da piccoli editori di qualità o in forma di piccole plaquette, e perché di rado ci si imbatte in lui, nelle occasioni in cui la poesia si mostra in pubblico, se non nella veste di spettatore attento. La mole degli interventi sul suo lavoro poetico non è cospicua e i suoi riferimenti, piuttosto che attingere al grande serbatoio della tradizione italiana o francese, respingono tentazioni orfiche e simboliste volgendolo alla ricerca di modelli più pacati e narrativi, come quelli di certa poesia inglese o americana. La sua officina, dunque, vive e si attesta per suo conto, senza inseguire facili mode e nutrendosi anche di un grande patrimonio narrativo novecentesco, di altissima levatura, come mostrano gli scaffali della sua biblioteca. Gargano è anche un raffinato interprete di quella narrativa: basti ricordare, qui, almeno il volume dedicato all’omosessualità nella letteratura italiana del Novecento e l’altro, ugualmente denso, su Capri “uranista”.
Ma la parte del suo lavoro che mi ha coinvolto di più resta quella della poesia. Da non so più quanti anni ormai, e dunque da sempre, Gargano va disegnando una sua dimensione femminile, così evanescente da trasfigurarsi, nei versi, nel suo esatto contrario. Ogni sua poesia è centrata su una donna, in forma di lettera, di dedica, di ritratto: ogni sua donna diventa immediatamente il personaggio, la tappa, di un inesausto travaglio nei confini del femminile. Di testo in testo, di raccolta in raccolta, Gargano insegue la sua dame sans merci; ne avverte tutto l’incanto e il pericolo; sa benissimo che ogni infrazione al codice nuziale si tramuterebbe, nel concreto, in una effrazione, in un atto di crudeltà assoluto verso una dinamica comportamentale che deve mantenersi sulla soglia dell’ideale. Anche se l’immaginazione procede in un senso tutt’altro che petrarchesco; o meglio, Gargano è forse l’ultimo petrarchista in grado di allestire un vastissimo canzoniere amoroso – di un amore irrealizzabile, per l’appunto, fantasticato – dove la donna riesce ogni tanto a dismettere i panni dell’angelicità per mostrarsi in tutta la sua energia sensuale. A patto, però, di restare così sulla carta.
Non sorprende che l’ultima tranche di questo canzoniere, data alle stampe per Empirìa, si intitoli Diario di un bugiardo. L’autobiografismo, si sa, è il primo dei grandi travestimenti letterari e Gargano non viene meno al precetto. Il suo io poetico è una perfetta proiezione che gli consente libertà inaudite, altrimenti impraticabili; una sorta di controfigura che può raccontare – e raccontarsi – un’identità multipla e complessa, votata all’illusione. In questo torna ad essere francese: lo spazio della pagina diventa automaticamente il luogo del sogno e della sua scrittura, della sua fugace, effimera materializzazione. Il verso non tiene e non vuole tenere il ritmo, perché nulla è davvero memorabile: piuttosto si adagia narrativamente, senza rinunciare al gioco delle rime o anche delle assonanze, perché è proprio lì, alla fine, che Gargano vuole condurci, in quella sorta di banda laterale, di colonna fonica, destinata a sorprenderci per un istante e poi a crollare come una parete senza cemento, perché possa apparire la prossima figura, il prossimo fantasma dietro la seduzione di un semplice nome. In questo Diario compaiono anche figure maschili: poeti, amici, intellettuali, compagni di strada.  Un requiem per il padre chiude il volume. Ancora autoritratti per interposta persona.

Claudio Gargano, Diario di un bugiardo, Empirìa 2014, e. 12.00.

(Veronika)
Il miele dei baci, Dea mortale, si tramuta in fiele
appena il tempo riprende la sua marcia trionfale.

giovedì 12 febbraio 2015

mercoledì 4 febbraio 2015

AILANTO n. 14 - Su Alberto Toni



Nella collana di «Poesia contemporanea» delle edizioni Nomos, diretta da Marisa Ferrario Denna, è apparsa  una nuova opera di Alberto Toni, Vivo così, introdotta da alcune lucidissime osservazioni di Mario Santagostini. Non saprei dire di meglio, rispetto a quanto afferma il prefatore in queste sue brevi, ma dense annotazioni di lettura, e dunque mi perdonerà se ne riprendo il filo (o i fili). Santagostini non entra nel vivo di ciò che il libro ambirebbe a raccontare, in ciò che ne potrebbe rappresentare l’ossatura tematica, e si comprende subito perché. A catturare la sua attenzione sono due problemi, anzitutto: una questione di genere e la modulazione del ritmo, intimamente connesse tra loro. Vengo subito alla prima, per la quale non si esita a definire il testo come «borderline»: Toni ha da sempre rimescolato le carte tra lirismo ed epicità, fin dai suoi lontani esordi, e ciò rappresenta una caratteristica ormai tutta sua, un sigillo della sua scrittura. Non si tratta soltanto di cogliere o tratteggiare delle sfumature tonali, c’è qualcosa di più: nel lessico, nell’impostazione di fondo, che di fatto oscilla tra queste due dimensioni, non all’insegna di un’indecisione, né tanto meno di un’irresolutezza. Siamo di fronte a una scrittura naturalmente anfibia, in questa prospettiva.
Come il genere è indefinibile (Santagostini richiama a sostegno delle sue osservazioni un’intera tradizione della modernità, e non lo si può certo contraddire), anche il ritmo sembra mimare il proprio discendere da retaggi più o meno riconoscibili, in realtà lasciando cogliere certe libertà, certe irregolarità, o anche ambiguità metriche, rispetto alle quali si riconferma l’ipotesi di partenza: siamo di fronte a un verso lirico o a un verso narrativo, o che possa ambire alla narrazione? Tutta la struttura di Vivo così ci lascia su questa altalena, spingendoci ora verso un’ipotesi, ora verso l’ipotesi opposta. In realtà la poesia di Alberto Toni vive di una complementarità tra esposizione del soggetto (lirica) e narratività (corale, dove l’io è solo uno dei vari personaggi di una storia possibile). Queste due pulsioni sono fuse, da sempre, in un unico registro, che però si sviluppa a partire da due punti di osservazione differenti: quello della concretezza e quello dell’astrattezza. Oppure, se si preferisce, tra particolare e generale, il tutto senza alcuna soluzione di continuità, ma tramite accostamenti, sequenze dirette. Accade quasi ad ogni pagina di questo libro.
Forse se ne possono spiegare le ragioni in quella ricerca, tutta etica, di “esemplarità” che mi pare la più autentica ambizione di Toni. È un’esemplarità che si trascina sulla soglia dell’allegoria senza mai varcarla del tutto, per approdare subito dopo a un profondo sentimento di realtà, a un bisogno di ritrovarsi dentro le coordinate consuete. È in questa tensione che si fonda l’ipotesi di romanzo a cui Santagostini allude. Ci sono nomi, personaggi, perfino un tu con cui costantemente dialogare. Si avverte, dietro ogni poesia, la presenza di un dolore che non sa risolversi solo nel privato, ma che vuole essere condiviso, e dunque farsi voce corale, esperienza di tutti: «attesa», dunque, vigilia» (lessico ermetizzante) che cessino trappole e assedi e un nuovo tempo si presenti con tutto il «viatico del non accaduto».

Alberto Toni, Vivo così, introduzione di Mario Santagostini, Nomos 2014, e. 14.00.

Se con animo lieto un passo intorno al mondo
fosse l’anello ritrovato,
distribuito come campione d’amore.
Tienimi per quel giro stabilito: presto,
nel tempo di natura vorrei stare.