venerdì 6 novembre 2015

Andrea Caterini su "Solstizio" per il Premio Frascati

Siamo ormai in prossimità della cerimonia conclusiva (il 28 novembre) che decreterà il 55° vincitore del Premio Nazionale di Poesia Frascati Antonio Seccareccia, che ha attraversato, nella sua lunga storia, il meglio della poesia italiana: da Alfonso Gatto a Carlo Betocchi, da Attilio Bertolucci ad Andrea Zanzotto, da Valerio Magrelli a Milo De Angelis, Renzo Paris e in ultimo Umberto Fiori. Con oltre mezzo secolo di vita, il Premio (col quale sono felice di aver cominciato a collaborare, pur non essendo un giurato) quest’anno giunge a un punto di riflessione. Il Novecento italiano è stato certamente il secolo della poesia. Infatti, non c’è Paese in Europa che possa reclamare la nostra stessa ricchezza. E non si fa riferimento solo ai consolidati Montale, Ungaretti e Saba, ma pure a poeti che sono sempre stati giudicati, spesso a torto, “minori”. Perché non sono grandi, poeti come Camillo Sbarbaro, Clemente Rebora, Attilio Bertolucci, Alfonso Gatto, Carlo Betocchi, Sandro Penna, Vittorio Sereni, Amelia Rosselli? E sono solo alcuni esempi.
I tre libri finalisti di quest’anno, che presenterò il 27 novembre alle ore 16 presso le Scuderie Aldobrandini di Frascati, "Solstizio" (Mondadori) di Roberto Deidier, "Vivo così" (Nomos) di Alberto Toni, "Addio Mio Novecento" (Einaudi) di Aldo Nove, raccolgono lo sguardo della tradizione, interrogandosi sulla memoria, sulla perdita del passato, sul significato del tempo nella caducità della nostra vita, suggerendoci – per sguardo, stile e dettato – una visione radicale ma anche commossa del presente.
Roberto Deidier è un poeta paziente e discreto. Più che accelerazioni, in "Solstizio" percepiamo spesso smarrimenti, dissoluzioni. È l’esistenza che fa i conti con se stessa, coi suoi pieni e suoi vuoti, con le sue tensioni verso un assoluto, e lo sgomento per l’approssimarsi, o l’accorgersi, di un vuoto. Capiamo allora che quella di Deidier è una lotta, ma senza il rumore delle armi, tra la volontà di esserci e lo spavento che tutto ciò che abbiamo visto, capito e finanche perduto nei dolori e nelle attese di un amore, possa allontanarsi spietatamente – infine obliandosi. Pure in quella sezione nella quale dà voce ad alcune “figure” bibliche, Deidier sembra volerne smascherare il carattere umano, prima che cercarne l’origine celeste, riportare quegli uomini – Adamo, Mosè, Giacobbe, Elia ecc. – alle loro primigenie fragilità. Come nei versi in cui dà voce ad Abramo: «Sapevo, sapevo bene/ Che alzando la lama dalla parte giusta/ L’angelo m’avrebbe afferrato il polso./ Per questo la puntai verso il cielo».

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