mercoledì 18 febbraio 2015

AILANTO n. 15 - Su Claudio Gargano



Claudio Gargano è quello che si dice un poeta “indipendente”. Lo è per la garbatezza con cui pubblica e dispensa le sue raccolte, tutte edite da piccoli editori di qualità o in forma di piccole plaquette, e perché di rado ci si imbatte in lui, nelle occasioni in cui la poesia si mostra in pubblico, se non nella veste di spettatore attento. La mole degli interventi sul suo lavoro poetico non è cospicua e i suoi riferimenti, piuttosto che attingere al grande serbatoio della tradizione italiana o francese, respingono tentazioni orfiche e simboliste volgendolo alla ricerca di modelli più pacati e narrativi, come quelli di certa poesia inglese o americana. La sua officina, dunque, vive e si attesta per suo conto, senza inseguire facili mode e nutrendosi anche di un grande patrimonio narrativo novecentesco, di altissima levatura, come mostrano gli scaffali della sua biblioteca. Gargano è anche un raffinato interprete di quella narrativa: basti ricordare, qui, almeno il volume dedicato all’omosessualità nella letteratura italiana del Novecento e l’altro, ugualmente denso, su Capri “uranista”.
Ma la parte del suo lavoro che mi ha coinvolto di più resta quella della poesia. Da non so più quanti anni ormai, e dunque da sempre, Gargano va disegnando una sua dimensione femminile, così evanescente da trasfigurarsi, nei versi, nel suo esatto contrario. Ogni sua poesia è centrata su una donna, in forma di lettera, di dedica, di ritratto: ogni sua donna diventa immediatamente il personaggio, la tappa, di un inesausto travaglio nei confini del femminile. Di testo in testo, di raccolta in raccolta, Gargano insegue la sua dame sans merci; ne avverte tutto l’incanto e il pericolo; sa benissimo che ogni infrazione al codice nuziale si tramuterebbe, nel concreto, in una effrazione, in un atto di crudeltà assoluto verso una dinamica comportamentale che deve mantenersi sulla soglia dell’ideale. Anche se l’immaginazione procede in un senso tutt’altro che petrarchesco; o meglio, Gargano è forse l’ultimo petrarchista in grado di allestire un vastissimo canzoniere amoroso – di un amore irrealizzabile, per l’appunto, fantasticato – dove la donna riesce ogni tanto a dismettere i panni dell’angelicità per mostrarsi in tutta la sua energia sensuale. A patto, però, di restare così sulla carta.
Non sorprende che l’ultima tranche di questo canzoniere, data alle stampe per Empirìa, si intitoli Diario di un bugiardo. L’autobiografismo, si sa, è il primo dei grandi travestimenti letterari e Gargano non viene meno al precetto. Il suo io poetico è una perfetta proiezione che gli consente libertà inaudite, altrimenti impraticabili; una sorta di controfigura che può raccontare – e raccontarsi – un’identità multipla e complessa, votata all’illusione. In questo torna ad essere francese: lo spazio della pagina diventa automaticamente il luogo del sogno e della sua scrittura, della sua fugace, effimera materializzazione. Il verso non tiene e non vuole tenere il ritmo, perché nulla è davvero memorabile: piuttosto si adagia narrativamente, senza rinunciare al gioco delle rime o anche delle assonanze, perché è proprio lì, alla fine, che Gargano vuole condurci, in quella sorta di banda laterale, di colonna fonica, destinata a sorprenderci per un istante e poi a crollare come una parete senza cemento, perché possa apparire la prossima figura, il prossimo fantasma dietro la seduzione di un semplice nome. In questo Diario compaiono anche figure maschili: poeti, amici, intellettuali, compagni di strada.  Un requiem per il padre chiude il volume. Ancora autoritratti per interposta persona.

Claudio Gargano, Diario di un bugiardo, Empirìa 2014, e. 12.00.

(Veronika)
Il miele dei baci, Dea mortale, si tramuta in fiele
appena il tempo riprende la sua marcia trionfale.

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