venerdì 30 gennaio 2015

Come ho scritto Solstizio



Mi hanno chiesto perché sono stato in silenzio per tanti anni. Li ho ascoltati tra perplessità e stupore e se ne sono accorti. Hanno continuato a non capire, o hanno fatto finta. Forse è vero, mi sono detto: questa è la loro impressione, la vedono in questo modo. Sono uno che è stato in silenzio per tanti anni, una parte di verità deve pur esserci. Nella mia parte di verità, però, vedo anni di letture, di studio, di altre scritture. E di libri dedicati alle scritture altrui. Ho dato una mano al “farsi” della poesia dall’altra parte, da quella del lettore, perché c’è sempre bisogno di questo. Quindi mi viene difficile riconoscere il silenzio. Non ho smesso di scrivere poesie e non ho neppure smesso di pubblicarne nei luoghi più disparati: più semplicemente, per tanti anni, ho sentito di non essere pronto per un nuovo libro. Ho sentito, anche, che non era il momento per un libro “mio”, per come avrei potuto concepirlo. Si alza sempre molta polvere, in poesia, ed è naturale che me ne sia entrata un po’ negli occhi. Non ho visto più con chiarezza, ma ho pensato che dipendesse anche da me. Ho cercato di accogliere le mie sensazioni e allontanavo il momento del confronto, perché un libro impone (o dovrebbe imporre) un confronto onesto. Onesto non vuole dire soltanto leale e disinteressato: vuole dire anche, per quanto possibile, obiettivo, calibrato. Il confronto è anzitutto misura, e la misura è fatta di competenza e di distacco.
Invece ho ritardato a dis-misura quel momento, prendendomi per debole, e di anno in anno anche il progetto di libro che avevo in mente si è fatto sempre più fluido. Ne ho avuto anche timore, qualche volta.  Ciò che andavo scrivendo si accumulava tra i cassetti e il computer, diveniva qualcosa di indefinito e di fantasmatico, una presenza che rimandava a una sola richiesta: trovare il coraggio di fare ordine, di ritrovare i fili che credevo perduti per sempre, e rimettere le mie mani in quelle del lettore. Gli editori dei miei primi libri di poesia, nel frattempo, chiudevano o attraversavano crisi da cui non si sarebbero più riavuti, o da cui sarebbero usciti con nuove fisionomie. C’era anche un problema esterno, dunque: rischiavo di avere perso il mio tramite con il lettore, e delle occasioni del web non c’era ancora da fidarsi. Ma proprio perché la letteratura è un’attività sociale, e anche quando ci illudiamo di essere da soli non lo siamo mai fino in fondo, il sistema di cui facciamo tutti parte si è mosso nella mia direzione: ho ricominciato a verificare certe libertà critiche e sono tornati disponibili spazi che solo poco tempo prima non avrei sentito tali. Il primo segnale, ancora lontano, mi venne da Antonio Riccardi, che mi chiese apertamente un libro. Erano trascorsi ancora pochi anni da quando era apparso Il primo orizzonte, così quell’idea si fermò lì, per me; a breve si sarebbe tramutata in un progetto su cui lavorare in attesa del momento giusto. Alcune poesie di Solstizio furono anticipate sull’Almanacco dello Specchio nel 2007; il fantasma iniziava a prendere forma. Avrei fatto passare, però, altri sette anni, prima di vedere il libro. Questo temporeggiare mi ha fatto iscrivere nella classe degli “appartati”: e anche se continuo a ritenerlo un participio passato, ovvero l’effetto di una causa, il senso sociale non cambia. L’importante è non scambiare la causa con l’effetto: è sempre il primo alibi dei recensori, diciamo così, distratti.
Come si è costruito, nel tempo, Solstizio? Intorno a una vicenda, intorno alla mia vita. Il primo orizzonte è stato il libro del mio saluto a Roma; lasciavo la mia città di sempre un po’ con il senso dell’esilio, un po’ della sorpresa. E per necessità: andavo in Sicilia per insegnare. Palermo, Enna e altri luoghi sono divenuti negli anni la geografia di questo esilio e di questa lontananza e non mi ha sorpreso ritrovarli spesso nei versi che scrivevo. C’è stato un innamoramento in qualche modo forzato, al principio: l’altra faccia del vero mi portava a considerare Palermo come una specie di terra promessa. I viaggi tra Roma e la Sicilia sono divenuti il sostrato profondo di Solstizio, riconosciuto e reinterpretato attraverso alcune figure bibliche. Da Palermo, oltre Roma, avvertivo il bisogno di ricongiungermi con delle origini ancora più lontane e tutto sommato salde.
È stato scritto che il solstizio del mio titolo ha a che fare con l’alternarsi delle stagioni, di luce e ombra. È anche così, naturalmente. Ma il solstizio è quel momento, illusorio, in cui il sole sembra fermarsi, sospendersi. In quella sospensione illumina le cose degli uomini di un biancore diverso, come se le mostrasse per la prima volta. Per questo, tra i miei profeti e patriarchi, manca la figura che più mi riguarda da vicino: quella di Giosuè, che sconfisse il nemico proprio perché il sole si era fermato nel cielo, impedendo l’arrivo della notte e consentendo la conclusione della battaglia. Giosuè non c’è perché è l’autentico leit-motiv del libro, il suo collante, ciò che ne ha deciso e orientato la struttura, facendo di tutto il materiale accumulatosi negli anni un discorso possibile. «Finché il Sole / risplenderà su le sciagure umane», scrive Foscolo chiudendo i Sepolcri. Questa luce di battaglia è divenuta per me luce altalenante, tra la partenza e l’arrivo. Mi sono sentito spesso come la statua di sale in cui si era tramutata la moglie di Lot, quando s’era voltata per guardare la distruzione di Sodoma e Gomorra; o come il protagonista di un racconto di Kafka, un abile trapezista, stella del circo, che improvvisamente scopre di avere bisogno di un secondo trapezio, e in quel bisogno rinviene la fine della gioventù. È questo, il discorso di Solstizio, fatto di spostamenti, dislocazioni, perdite e riconquiste, attraverso la poesia. Solo lei, la musa, poteva chiudere il libro, in attesa del suo ritorno.

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