martedì 20 gennaio 2015

AILANTO n. 13 - Su Tiziano Fratus



Dov’è che comincia il paesaggio dell’immaginario e finisce il paesaggio reale? E può esistere un paesaggio reale senza il complemento dell’immaginazione? Ogni paesaggio non esiste forse perché c’è un soggetto che lo crea mentre lo sta osservando? L’occhio è una straordinaria macchina dell’invenzione, ci dice ogni teoria del paesaggio, e paesaggio è l’occhio stesso, elemento senza il quale l’idea di ciò che ci circonda risulterebbe impossibile. Ed esiste, naturalmente, anche un paesaggio dell’orecchio, un mondo fatto di ascolti, spesso di rumori, talvolta di voci sommesse che all’improvviso ci invitano a riconsiderare i nostri percorsi, a dirigere lo sguardo altrove, a vedere in prospettive non considerate fino a quel momento. Il poeta moderno, e ancor più quello postmoderno, sa bene quanto vista e udito congiurino insieme non tanto alla registrazione di un mondo concreto, referenziale, quanto al rinvenimento di quella fertile e suggestiva zona di confine tra la percezione dei sensi e la possibilità che il pensiero ci racconti una dimensione diversa. Lo sa bene anche Tiziano Fratus, forse il più legato al concetto di paesaggio tra i poeti italiani, dopo le «scritture vegetali» di Pier Luigi Bacchini. Ma Bacchini, che aveva ereditato una lunga tradizione di osservazione naturalistica e osservava il mondo come da una fotocellula, sembra assente dai versi di Fratus, che nascono, piuttosto, quando una saturazione culturale sposa un’emozione naturale.
L’editore Feltrinelli, che da più di trent’anni aveva chiuso i conti con la poesia italiana contemporanea, vi ritorna oggi attraverso l’esperienza degli e-book, all’interno del progetto di editoria digitale «Zoom». La collana Zoom-poesia, che ha riproposto brevi antologie di classici al prezzo di 99 centesimi, si apre infatti alle officine più recenti, ripartendo proprio da Fratus, con Un quaderno di radici. L’uscita è prevista per il prossimo 5 febbraio. Chi conosce l’autore, il suo incessante esplorare il mondo dei boschi e delle foreste con la passione e la competenza di chi va cercando non solo radici biologiche ma anche più ampie origini metaforiche, sa bene quanto sia vasto il suo orizzonte paesaggistico, e direi anche paesologico. Quello di «radice» è per lui un concetto essenziale, primario, da cui ripartire ogni volta, ma a patto di riconoscere che questo non deve coincidere con un unico punto fermo, quanto rispondere a una visione plurima e sfaccettata del mondo che si osserva e si crea. Questa mobilità di sguardo è evidente nei suoi versi, nei piccoli effetti di straniamento che provocano in chi legge, nei passaggi repentini. L’uomo che guarda è un soggetto che in realtà non esiste più: «Siamo scomparsi senza preavviso / dalle mappe del mondo», scrive Fratus, e dunque la radice è anzitutto la possibilità di una nuova mappa, o perfino il riconoscere che di mappe possiamo fare a meno e che forse la scomparsa può configurarsi come una nuova occasione. «Viviamo… Sanguiniamo… Annulliamo», scrive in una poesia intitolata Il dio del piombo e dell’aria, dove il mondo appare «costipato fra la carta e la corteccia», tra il proliferare di una cultura autofaga e la corteccia, quell’elemento autentico che ancora può costituire un elemento di difesa e di riconoscimento delle proprie autentiche radici. Una delle poesie più riuscite, Dedica al buio, allude anche a questo, sebbene si tratti solo di uno dei vari percorsi a cui il quaderno di Fratus ci invita. Ma intanto si può partire da qui, da questo buio che è il contrario del nulla, pur mancanti della perizia dello speleologo o delle arti magiche del negromante, per affrontare questa ennesima discesa agli inferi a cui Fratus ci chiede di non sottrarci.

Tiziano Fratus, Un quaderno di radici, Feltrinelli, Zoom Poesia, 2015.


 Dedica al buio

Quando ti penso
mi rammarico di non essere
un astronomo

che convive con parole
lunghe e acrobatiche,
sigle fantasmatiche,

ammassi plutocratici.
Mi vergogno
della mia pochezza
in speleologia

e negromanzia,
come una talpa da salotto
cerco un buco

alla base del muro
dove nascondermi
a me stesso.

Tento un rifugio
paracadutandomi
nel più pesante

dei vocabolari,
ma le pagine
non si spalancano.

L’inchiostro è secco.
Il buio è pieno
di verbi graffianti,

di entomi roteanti
di poeti espatriati
e panchine ambulanti.

È l’esatto contrario del nulla.
Eppure basta guardarlo
per smettere di pensare

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