venerdì 29 agosto 2014

Alessandra Pacelli su Solstizio

Apparsa su «Il Mattino» dell'11 agosto:


Poesia
Nel «Solstizio» di Deidier
con Mosè, muse e trapezisti

Alessandra Pacelli


«Nel pieno della notte ognuno attende / la sua aurora boreale». È con grande compostezza ed equilibrio formale che Roberto Deidier dà forma alle inquietudini, all’analisi interiore di figure di altri in cui si specchia, in cui cerca il senso dell’essere uomo. Come il trapezista a cui dedica nove poesie: colui che ha scelto l’aria alla terra, sempre in bilico, che traffica con il vuoto, una sorta di Barone Rampante traslato in un circo. Oppure gli «incontri in differita» con Mosè, Abramo, Rut, il bellissimo doppio ritratto che Davide e Golia si rimandano l’un l’altro, Salomone («Non mi accorgevo che ogni giorno / era una perdita e non una conquista», profeti e patriarchi tutti ripescati da «La fossa dei leoni». E poi la sezione dedicata a una Musa forse in fuga, che in extremis cerca di richiamare a sé e alla quale confessa: «Non ho che questi versi da intrecciarti». Insomma è un libro denso e maturo questo Solstizio (Mondadori, pagg. 165, euro 16), che in modo pacato ed elegante conduce il lettore a guardare oltre la cornice immateriale dei nostri precipizi. Tra le righe c’è il desiderio di abitare la vita senza riuscire a farlo fino in fondo, forse frenati dalla paura di avere paura, dalle ferite che rinascono o dalla consapevolezza desolante della propria finitudine: «Sono fermo non so dove e non ho occhi».



martedì 26 agosto 2014

Arnaldo Ederle su Solstizio

Una recensione di Arnaldo Ederle, apparsa su «Bresciaoggi» il 18 agosto:

Come il trapezista di Kafka sa volare sui casi della vita



Roberto Deidier, romano, vive tra Roma e la Sicilia dove insegna all'università. Il suo nuovo libro, Solstizio (Mondadori, 166 pagine, 16 euro) è corposo, diviso in sei sezioni. 
«Dicono morte l'istante della morte/ E la sua sterminata sospensione,/ Soglia e stanza infinita/ Dove i passi non coprono misure»: come si vede da questi versi, l'autore ha la chiarezza e la luminosità espressiva della classicità. Fra tutte le sezioni la più importante nella trama del libro è «Il secondo trapezio», ispirata a un racconto di Kafka, dove la precarietà del trapezista ben simula l'altra precarietà, quella esistenziale. 
All'inizio di alcune parti della raccolta, assolutamente compatta e idonea ad essere chiamata propriamente libro, si legge una poesia, un vero e proprio esergo, scritto in corsivo, che ne anticipa il contenuto generale, e suggerisce lo spirito dell'intera sezione. Un artificio davvero funzionale che favorisce la continuità del racconto intimo che il poeta, nella vita che espone, forma con il materiale del suo ricercare e della sua continua attenzione alle cose che egli ritiene fondamentali nella sua esistenza: «Folla del primo mattino, folla senza rumore/ Cedi il passo agli ospiti festosi/ Voi che portate il peso di ogni giorno/ e fate i miei sogni più leggeri,/ Non gravare di fatica le mie spalle/ di dolore le mie braccia». Deidier è poeta del dettaglio, descrittore caparbio di tutto ciò che a prima vista non compare all'osservazione dell'uomo, ma che sta sotto o imbrigliato nella matassa del vivere come parte fondante dell'esistenza, osso duro della sua essenza e della sua forma. 
Deidier insegue queste figure di tutta una vita nelle sue più intime sfaccettature, nei suoi tratti più evidenti al suo sguardo e alla sua fine sensibilità con l'acume di pensiero e di scelta che lo distingue: «Frontiera aspra e indistinta/ Rinarra paure sconosciute:/ I piedi confitti nel suolo,/ L'affondo alle Madri che inghiottono/ I figli spinti troppo avanti./ E improvviso il ricordo di quanto/ Quella loro esistenza sia preziosa». 

Comisso e Penna






Leggo e rileggo Comisso. Ho portato con me il “meridiano” di opere scelte, curato da Rolando Damiani, che ha scritto una superba prefazione, e da Nico Naldini, che di Comisso è stato amico, editore, biografo. È una compagnia molto adatta per questi pomeriggi estivi, già attraversati da un’aria che anticipa settembre. Dopo l’afa e la polvere, il paesaggio ritrova una freschezza che trasuda anche da queste pagine. Sembra che non ci sia soluzione di continuità tra quello che ci trovo descritto, il paesaggio della campagna veneta di un secolo fa, le avventure sulle sponde dell’Adriatico e il verde che mi passa dalla finestra. L’italiano di Comisso scorre con la leggerezza elegante di uno stile pulito, asciutto e necessario; pochi tratti essenziali per un personaggio, che spesso occupa righe minime; rapidi affreschi per i panorami. La velocità è tutto, per questo scrittore che ha saputo farsi, molto più modernamente di altri, reporter di se stesso, filtrando il meglio che poteva venirgli dalla tradizione. Aveva ragione Sandro Penna a riconoscerlo come il suo vero maestro: questi racconti sono pervasi da una sensualità avvincente, che rivela un rapporto simpatetico con la realtà, con il mondo osservato, con gli incontri e le esperienze vissute. Ma Penna guarda anche dietro le spalle di Comisso, e come D’Annunzio, risolve quella simpatia in una relazione trasognata. E non si limita a questo: guarda ancora più indietro, fino a ridiventare arcaico, a ricreare la purezza di un primitivo che osserva il mondo senza studiarlo, ma con l’infinita sorpresa di ritrovarcisi. Per questa via, diventa universale. Comisso invece è sempre lì, concreto, contingente, avvinto a ciò che narra come un innamorato consapevole dei limiti e della fine di ogni amore, e per questo niente affatto turbato dalla perdita. I suoi finali ci lasciano un po’ sospesi, come se tutto dovesse, o potesse ricominciare analogamente in un altro luogo e con altri personaggi. Penna, al contrario, fa dei suoi fanciulli un’unica entità, una sola astrazione: il suo non è un passare di esperienza in esperienza, ma l’eterno ritorno dell’uguale. E così, infatti, accade, al punto che non si riesce a staccarsene. Né da lui, né da Comisso. Ma entrambi restano felici, forse gli scrittori più felici del secolo scorso, anche quando si lamentano. Magari proprio dell’estate, e a ragione, come in questo brano:


La tanto desiderata estate infine ossessiona, non per il caldo, per la sete o per l’insonnia, ma per l’orgasmo precipitoso della folla che vuole muoversi in tutte le direzioni per bruciarsi di sole, per intridersi di polvere, per insozzare l’acqua del mare, per spargere carte unte sull’erba dei prati montani.

mercoledì 13 agosto 2014

AILANTO n. 5 - Su Luciana Frezza






Quella di Luciana Frezza, scomparsa a Roma, dov’era nata, nel 1992, può definirsi una presenza discreta nella poesia italiana del secondo Novecento. Conosciuta e stimata anche come traduttrice, soprattutto della poesia francese dell’Ottocento, richiesta per questo da editori come Einaudi Feltrinelli e Rizzoli, ha pubblicato in vita diverse raccolte a partire dagli anni cinquanta, tra cui ricordo La farfalla e la rosa, voluta da Giorgio Bassani nella biblioteca letteraria della Feltrinelli; la stessa dove apparve Le porte dell’appennino di Paolo Volponi, per restare in tema di poesia. Negli anni ha affidato la sua opera a piccoli editori di qualità come Neri Pozza o Empirìa, presso cui apparve, proprio nel ’92, il suo ultimo e importante libro, Parabola sub. Il suo nome non è certo sconosciuto agli addetti ai lavori ed è circolato con autorità negli ambienti letterari tra Roma e Milano; eppure, nonostante alcune proposte postume (come le poesie di Agenda, prefate da Jacqueline Risset per Scheiwiller nel ’94) la sua opera ha attraversato un vasto cono d’ombra e molti dei suoi libri – traduzioni a parte – risultano ormai introvabili, così che Luciana Frezza ha rischiato di mancare all’incontro con nuove generazioni di lettori.
Quando un autore muore, entra in una sorta di tunnel. Per renderlo corto, il più corto possibile, occorre un pubblico consolidato, o l’intervento di un lettore autorevole. Ciò che non è mancato alla traduttrice, ma che è venuto meno al poeta. Nonostante la sua poesia, in vita, abbia goduto di svariati consensi e riscontri critici, dopo la sua morte un silenzio un po’ sinistro ha avvolto l’opera di Luciana Frezza; raramente il suo nome è tornato nelle storie, nei panorami, nelle antologie che si sono succeduti negli ultimi venti anni. Nella fretta riepilogativa di fine millennio, con la quale interpreti non proprio sereni e informati hanno combattuto per conquistarsi una fragile autorità, molti nomi sono purtroppo scomparsi dai regesti della poesia. Dunque è stata una vera sorpresa, e aggiungerei felice, che gli Editori Internazionali Riuniti abbiano accolto la proposta di Giovanna e Natalia Lombardo, figlie di Luciana e di uno dei nostri maggiori anglisti, Agostino Lombardo, di riunire in un solo, ampio volume l’intera opera in versi della madre, insieme alle prose, che intessono in effetti un dialogo fitto con le poesie, e agli inediti che sono stati rinvenuti tra le carte dell’autrice. Il quadro sembrerebbe essere a questo punto completo, e l’offerta di sicuro interesse, se in realtà il rapporto fra poesia e traduzione non si fosse svolto, per Luciana come per la maggior parte dei poeti, su un piano paritario, ovvero sullo stesso piano, con le stesse energie. La traduzione non ha rappresentato un ambito a parte, un’attività collaterale o addirittura secondaria: è stata, eticamente, lo stesso uso della parola per giungere al fondo di una condizione umana. Attraverso i francesi Frezza ha continuato a interrogare se stessa, ha tentato di sciogliere quei nodi, quelle tensioni che l’hanno accompagnata fin da quando si laureò con Ungaretti, a Roma, ma con una tesi su Montale.
Tutta la sua poesia, fin dagli esordi, si attesta come un campo relazionale, come cronaca di incontri e affetti che hanno segnato un’intera esistenza. All’interno di questa rete le tensioni inevitabili sono veicolate spesso attraverso il ricorso a una struttura più profonda come quella del mito, e si tratta invero di archetipi inferi. Si avverte, nelle relazioni femminili (madre-figlia e simili), l’occulta ambiguità, tra affetto, possesso, liberazione coatta, che si agita nella vicenda di Demetra e Persefone; e ancora infera è la declinazione mitologica dei rapporti tra la dimensione femminile e quella maschile, dominata questa volta dalle figure di Orfeo e di Euridice, o di Iside e Osiride. Questi ricorsi al mito sono resi espliciti in Parabola sub, titolo che sembra alludere proprio al lavoro di discesa e di “scavo” (ancora Ungaretti) in un comune retaggio ancestrale, ma la matrice siciliana li richiama, li evoca, direi che li esige fin dai testi di Cefalù e altre poesie, con cui Frezza si presentò ai lettori per la prima volta. Da poeta che viene dopo i fasti rigenerativi della modernità, Luciana Frezza ha potuto veicolare i contenuti di quelle storie in maniera nuova, per portare allo scoperto la radice di quelle contraddizioni, di quelle tensioni, per l’appunto, di cui il mito è solo il riflesso; Euridice ha tratti che sembrano eludere ogni sottomissione, maschile e femminile si trovano sul terreno di uno scontro dialettico piuttosto che su quello di una pacifica e convenzionale convivenza. La lingua riflette queste oscillazioni, nelle aggettivazioni e nelle immagini insolite, nel dialogo con l’altro testimoniato proprio dalla frequentazione dei francesi come da quella di Montale. Allora, letta in diacronia, dispiegata tutta insieme in questo volume - al quale ci auguriamo che un giorno possa affiancarsi quello delle traduzioni – questa poesia si attesta come fiancheggiamento di un divenire intenso e problematico, sotto cui si agitano viaggi e metamorfosi; e il mare di Cefalù sembra quello di Valéry, o quello ligure del primo Montale, che ci strappa dalle certezze della fissità.

Luciana Frezza, Comunione col fuoco. Opera poetica, Editori Internazionali Riuniti 2013, e. 28,00

Alziamo i calici
Non crederli gigli appassiti
mi conforta anzi scintillanti
ancora i tuoi bicchieri alzati
voglia di gioia negata
impuntatura librata
per forza propria ape e fiore nell’aria
dove ancora salgono e il brutto
muso di lutto pret a porter che detestavi cade
come buccia dal frutto.


© Dino Ignani per la foto di Luciana Frezza

mercoledì 6 agosto 2014

AILANTO n. 4 - Su Mario Santagostini






«C’è un gran casino, compagni». Così Santagostini definisce se stesso in rapporto a una topografia suburbana, mentre si proietta nel passato per consegnarci un ritratto di sé nel pieno degli anni Settanta, delle loro attese collettive, delle disillusioni politiche. C’è come una doppia voce, in questo libro: quella che cerca direttamente di mimare il vuoto aurorale da cui tutto potrebbe (poteva) ancora avere un inizio, e quella narrante, matura, che le si sovrappone commentando e che spinge l’altalena tra l’incanto e il disincanto. La lingua di queste poesie scorre registrando l’impasse del pensiero, i dubbi e i segnali incerti dell’esperienza: «Sono arrivato a chiedermi», «Mi chiedo se», «non si vedeva dove», «non dovrebbe mai succedere», «Pensavo», «viene da dire». La realtà passa al filtro del come se, diventa immagine, metafora. E tutto il libro una densa e problematica allegoria. Eppure in questa riproduzione così schietta e difficile del proprio vissuto, sembra esserci ancora posto per l’ingenuità - nel senso più alto e poetico del termine - e la sorpresa. Lo spazio della felicità. Se la felicità, come recita il titolo, è «senza soggetto», è perché Santagostini ha voluto collocarla in quella speciale dimensione, tra due poli, che sono la materia e l’infinito. Forse, fuor d’allegoria, vita e poesia: «Certo, qui una volta si creava, / poi si è passati al vivere. / Adesso, aspettiamo». Sono gli ultimi versi dell’intero libro.
Non si tratta però di uno stallo: piuttosto è una tensione. Si spiega allora, tra le altre rievocate in queste pagine, la presenza di Petrarca, con il suo felice (per noi che possiamo leggerlo e interpretarlo) rovello; ciò che lo lega ad altre figure, solo apparentemente distanti per quella straordinaria anamorfosi che è la storia umana, ma in realtà ricche di contatti. L’infinito, in loro, diviene il «tutto», quella sorta di «maratoneta / eterno in viaggio / verso l’io». Sironi, Van Gogh, Hopper. Una linea impossibile nella storia della pittura moderna, tra espressionismo e realismo, eppure un’onda, un fluire carsico che lascia affiorare nei particolari e nei colori tutta l’inquietudine e l’irrequietezza di un soggetto di fronte alla sua epoca, anche quando si tratta di un ramo fiorito o di una stazione di servizio. Ma questo è il punto: il soggetto è destinato a scomparire, e quella felicità appena intuita nel cuore del contrasto è consegnata ad altri. Santagostini sa provocare efficaci cortocircuiti, sdoppiandosi nei panni degli artisti e dei poeti amati, in parte arrivando a riflettersi in loro per poi negare ogni identità: i personaggi non sono mai loro, ma creature metamorfiche, calata ognuna nel suo destino. Anche Mario Santagostini nonno diventa, nella sua cecità, un «semitiresia».
Se la lettura è esatta, la rievocazione di queste figure fa da cartina di tornasole, da reagente alla coralità degli anni che il poeta rievoca. Anni fatti per l’appunto di una «felicità senza soggetto», perché il soggetto non poteva amarsi, ma disperdersi in un paesaggio dove la natura occupa uno spazio minimale, anche se in apparenza. Sopra le mimose, e le vespe e le libellule così insistentemente richiamate, stava e sta un cielo di lampi che può ancora rompere la pietra della lingua; quella «pietra scalamitata» che ha il potere di guarirti, se le passi accanto.

Mario Santagostini, Felicità senza soggetto, Mondadori 2014, e. 17.00





(Io, nel 1985. Ma pensando altri anni)

Guardo il gasometro,
le case Aler, una fila di box, il tram
quando frena. Una volta, sognavo
qualcosa di meglio
della materia, e della vita.
Ora non sono in grado
d’aspettarmi nulla, l’eterno

poteva essere diverso.

venerdì 1 agosto 2014

Franca Alaimo su Solstizio

Sul sito “La Recherche" (www.larecherche.it) segnalo una nuova recensione su Solstizio. L'autrice, Franca Alaimo, affronta i temi del linguaggio e offre un a lettura anche metapoetica del mio libro, con osservazioni per me molto importanti.
Grazie, Franca.