lunedì 1 dicembre 2014

La Premiata Compagnia delle poete



Esiste, da qualche anno, una compagnia di poete. Anzi, una Premiata Compagnia delle poete. Un ensemble di donne poeta, di diversa nazionalità, che s’incontrano su terreni comuni e allestiscono, tra parola, movimento, gestualità, musica, delle performance, dei veri e propri spettacoli.
Che può significare tutto questo, oggi, che senso può avere una simile operazione? E come si svolge, di fatto, l’attività di questa Compagnia, anche al di là dei progetti e delle intenzioni?
Vorrei tentare qualche riflessione a più ampio raggio, cercando di inscrivere questa esperienza in una prospettiva forse più pertinente di quella della sola poesia performativa. Oggi che la prassi letteraria è sempre più riconosciuta come sistema, anzi come polisistema dinamico, in continuo movimento, è evidente che le sue metamorfosi ricadano su ciascun elemento del sistema, turbandone ciò che riconosco come il suo sonno identitario.
È uno dei grandi paradossi – o delle grandi contraddizioni – a cui accade di assistere. Da un lato ci sono fenomeni centripeti, pur diversi tra loro, come la globalizzazione i flussi migratori; dall’altro, a fronte delle inevitabili trasformazioni dei modelli culturali che tali fenomeni provocano, si avverte l’arroccarsi su posizioni che hanno chiari limiti ideologici e teorici, specie se ne consideriamo la dimensione nazionale, o addirittura infra-nazionale. Da parte mia resto convinto che chi continua a discutere affannosamente di canoni e identità, in letteratura, e dall’interno delle prospettive nazionali, non solo non abbia compreso cosa significhi la libertà per un artista moderno (termine, quello della libertà, che ritrovo felicemente tra le pagine di poetica della Compagnia delle poete: pagine di poetica libera), ma che abbia anche difficoltà a comprendere la complessità del presente e la dimensione pluriculturale in cui ci troviamo. Temo, infine, che questo arroccarsi non permetta di inquadrare la portata effettiva dei problemi posti dalla letteratura odierna e che il modo di trattare tali problemi sia condizionato da visioni non più condivisibili, ormai estranee ai modelli espressivi, comunicativi, ermeneutici della modernità.
Non sussistendo più poetiche normative, com’era nell’età della tradizione, definitivamente pensionata dalle avanguardie (ed essendo Dio morto, nel frattempo), mi chiedo che valora possa avere, oggi, tornare a parlare di canone. I principali attori della discussione sono, perlopiù, presi dal problema di cosa inserire negli aggiornamenti dei loro manuali scolastici. Quanto all’identità, mi sembra che sia completamente trascurato l’aspetto dialogico-narrativo e anche mistificante della questione. L’identità non è una monade, ma un problema che si articola attraverso tre livelli: ciò che si vuole essere, ciò che si vuole mostrare, ciò che l’altro percepisce di noi. Ecco il cuore del problema: l’identità come narrazione all’altro. Senza questo interlocutore non esistono identità, ma monadi destinate a un desolato solipsismo; senza questo interlocutore, ogni rilievo in merito all’identità si rivela una triste tautologia.
Penso, in particolare, alle letterature della migrazione: non dovrebbero più esistere come categoria a sé, ma dovrebbero far parte del polisistema che chiamiamo – seppure impropriamente, considerati i fenomeni a cui ho fatto accenno – “letteratura italiana contemporanea”. Un polisistema decisamente e fecondamente arricchito dagli apporti – di lingua e di immaginario – di autori che hanno scelto l’italiano per esprimersi, pur non essendo la lingua del loro modello culturale di partenza, ma che attraverso questa scelta contribuiscono alla creazione di un nuovo e più ampio modello transculturale.
Siamo trascorsi, negli ultimi cento anni, dall’«Io è un altro» di Rimbaud a «Io è gli altri»; e questa necessaria, inevitabile pluralizzazione – che risponde anche, e non solo, ai movimenti della Storia – si è ulteriormente evoluta in un’affermazione che potrebbe essere proprio la risposta a un processo di narrazione identitaria. Raccontami chi sei: io è più altri, diversi altri.
Credo che questa possa essere la vera fotografia della letteratura attuale, nei cui margini ben si inserisce l’attività della Compagnia delle poete. Leggendo le loro dichiarazioni di poetica (ma temo che, quanto a “dichiarazione”, si tratti di un termine improprio) mi accorgo che dietro deve esserci stata la richiesta implicita di ricondurre il lavoro a tre parole chiave. Cerco di ripercorrerle. Per Mia Lecomte queste parole corrispondono a “casa”, “famiglia”, “libertà”, e preciso che è la terza a sostanziare le prime due. Helena Paraskeva identifica le tensioni della sua scrittura con il vento del Meltèmi, vento dall’azione ossimorica. Jacqueline Spaccini parla di “singolarità”, “insieme”, “gioia”; Sally Read di “lingua”, “vita”, “corpo”. E quest’ultima parola ritorna tra quelle proposte da Brenda Porster: “corpo”, “ponte”, “scoperta”. Ancora “libertà”, ancora “corpo”, e “corridoio” (possibile alternativa di “ponte”) sono nei versi di Laure Cambau. Eva Taylor specifica ulteriormente l’immagine e parla di un ponte Bailey, «quello che sembra provvisorio ma rimane». Candelaria Romero parla di “viaggio”, “compagnia”, “avventura”; Barbara Serdakowski di “senso”, Adriana Langtry di “specchio”, “sponda”, “segno”. Infine Barbara Pumhösel e Melita Richter si rifanno, rispettivamente, alle parole “equilibrio”, “filo”, “sinestesia” e a “Europa”, “paese”, “fuori orario”. Traggo queste informazioni dal libro di Francesco Armato, Premiata Compagnia delle poete, edito da Iannone.
Questo pur rapido elenco di parole-concetto è davvero un sistema. Molto compatto, aggiungereu, in cui le immagini travasano di poeta in poeta ma restano in definitiva ancorate a quel concetto mobile e plurimo di identità da cui ho preso le mosse. Raccontami che sei. Io è un ponte, un corridoio, che chiunque può percorrere  alla ricerca di segni e sensi, spinto da un inarrestabile Meltèmi, che distrugge – o vorremmo che distruggesse – i nostri pregiudizi e le nostre certezze così relative, facendo delle nostre esistenze non dei dogmi ma un bene da condividere, un tesoro da spartire, e che più spartiamo più ci fa ricchi.
Allora l’attività di una Compagnia delle poete non è solo la benvenuta, ma diviene anche necessaria, poiché si fonda sul dialogo, sull’assimilazione, sul contagio. Vorrei che fossero definitivamente trascorsi i tempi – tristissimi – in cui autori provenienti da altre culture, portatori di vitalità e fermenti, sono stati rimossi, come se non fossero mai giunti qui. Penso fra tutti a Juan Rodolfo Wilcock, argentino, che dagli anni Cinquanta alla morte, nel 1978, è vissuto in Italia, ha partecipato al dibattito letterario, ha scritto in più generi libri dominati da un’ironia sapiente. Difficilmente lo troverete nei manuali di letteratura, se non in qualche nota marginale, magari come traduttore di Marlowe e di Joyce.

Questo modo di storicizzare non è più tollerabile, perché, semplicemente, non è vero, non rispecchia la vivacità di quanto accade. Grazie, allora, alla Compagnia delle poete, per il lavoro di ricucitura culturale che vanno compiendo: un segnale fondamentale, che ci viene dalle donne.

Nessun commento:

Posta un commento