lunedì 1 settembre 2014

Morante / Ortese






Si torna spesso a discutere, nei salotti o in quei salotti camuffati che sono spesso i convegni letterari, se sia più grande Elsa Morante o Anna Maria Ortese. Il gusto italiota predilige la fazione, la creazione di partiti, la divisione al posto del confronto. Tutto ciò, naturalmente, senza alcuna vera base critica, ma solo per il piacere di difendere una scelta che nasconde una questione di identità: sia che si tratti di semplici lettori, sia che si tratti di scrittori e poeti. A quel punto Morante e Ortese non valgono più di per sé, ma divengono dei feticci, delle proiezioni. Di che cosa? Della generale insicurezza che domina non solo le categorie della letteratura, ma anzitutto di chi la fa o pretende o presume di farla. Intanto perché la sfida resta confinata nel ghetto ideale, ma inesistente, delle scritture femminili. Non mi è mai accaduto di sentirmi proporre paragoni, che so, con Gadda o con Calvino. Morante può solo gareggiare con Ortese, e viceversa, all’insegna di quell’altro luogo comune che vuole le narratrici più grandi dei loro colleghi maschi. E comunque in un mondo a sé.

A dire il vero, queste due figure hanno molto in comune. Certo, si obietterà, per quanto è tormentata, fosca e torbida l’una, l’altra risulta folle e visionaria, ma tutt’e due hanno lo sguardo rivolto nella stessa direzione. La loro cultura, e l’immaginario che essa veicola, sono nel meridione. Non conoscono i rigori del Nord, la tensione della pagina di Lalla Romano, la velocità e la sintesi di Natalia Ginzburg, la loro essenzialità. Traboccano, invece, di ansia generosa. Sono spagnole, più che italiane. Sono barocche. La loro speranza è il riscatto oltre la realtà. I personaggi di Elsa Morante scontano una mancanza, un’imperfezione di fabbrica: pagano il loro eccesso, di passione o di ambizione. Quelli di Anna Maria Ortese  sono invece allegorie, creature fantastiche offese dal presente o dalla Storia, relegate ai margini, eppure nella loro voce inespressa – voce di cui si va invano alla ricerca - è il senso del mondo intero. Assumono la loro sostanza dalla natura, dove la legge non ha nulla di umano e neppure riguarda il destino, perché nella natura non esiste il tempo e dunque non c’è alcun fine. Sono l’iguana, il drago, il cardillo, il puma. I personaggi morantiani si adagiano, quasi si cullano nella loro tara; quelli che ne sono esenti, o che riescono ad affrancarsene, sono relegati al ruolo di narratori o ad uscire di scena. Perché tutto l’universo narrativo di quest’autrice si nutre del suo stesso solipsistico difetto, o della sua stessa colpa, non fa differenza. Il problema, evidentemente, non è la loro grandezza, la loro rispettiva altezza. È dove guardano, con gli occhi di chi. Una è Cervantes, ha la sua ostinazione, il suo idealismo: rompe lo schermo diafano della realtà e ne affronta fino in fondo le conseguenze, fino all’abiezione. L’altra è lo schermo diafano della realtà. È Calderon.

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